Roma, lunedì 20 gennaio 1964, ore 10: la giovane Karin Arbib varca la soglia dell’ufficio in cui lavora, in via Lazio n. 9, poco distante da via Vittorio Veneto. È la segretaria di Farouk Chourbagi, giovane imprenditore impegnato, tra l’altro, nel settore tessile. L’ufficio di via Lazio è la sede della Tricotex, da lui diretta.

La giovane donna apre la porta con la sua chiave. Appena entrata, risponde al telefono, che sta squillando. Qualcuno le chiede di Chourbagi, irreperibile dal sabato precedente.

La ragazza raggiunge quindi la stanza del suo principale: intende consultare la sua agenda per recuperare i recapiti telefonici di alcuni amici e chiedere loro notizie.

Farouk Chourbagi giace, senza vita, proprio nella sua stanza, in prossimità della scrivania, con la testa rivolta verso il vano di una finestra. L’uomo è stato attinto da alcuni colpi d’arma di fuoco ed i suoi lineamenti risultano deturpati dal vetriolo.

Farouk Chourbagi

Nato al Cairo il 16 aprile 1937, è figlio dell’ex ministro del tesoro egiziano. Nel 1961 si stabilisce a Losanna, conducendo una intensa vita mondana, a contatto con quella che si usa definire jet society.

Nel 1963 si trasferisce a Roma, affittando un lussuoso appartamento in via Savastano n. 7, nel quartiere Parioli.

Ha inoltre acquistato l’intero pacchetto azionario della Tricotex e stabilito il suo ufficio, appunto, in via Lazio n. 9. Anche a Roma il giovane si dedica alle avventure galanti oltre che agli affari, nel contesto mondano che gravita nell’orbita di via Veneto.

Farouk Chourbagi
Farouk Chourbagi

La scena del crimine

La porta di ingresso dell’ufficio di Chourbagi risulta priva di segni di effrazione. È dotata di tre chiavistelli: quello centrale è collegato a una corda sottile, mediante la quale è possibile chiudere la porta dall’esterno, facendo assestare il paletto della serratura nel suo alloggiamento.

Nello studio di Farouk non si rilevano segni di colluttazione e non risulta che nulla sia stato asportato.

All’interno della giacca della vittima, una chiave dell’appartamento. La segretaria dispone dell’unica altra copia. Accanto al cadavere, un fazzoletto rosa.

Tracce balistiche

Repertati quattro proiettili e quattro bossoli, esplosi con una pistola semiautomatica calibro 7,65, con estrattore posto sulla destra della canna. Tre proiettili hanno attinto la vittima al capo e sono fuoriusciti. Un quarto ha raggiunto Chourbagi alla schiena, senza fuoriuscire.

Tracce ematiche

Una dalla conformazione netta e, diremmo, regolare, si colloca proprio al di sotto del vano della finestra, sviluppandosi in una uniforme colatura fino all’alto battiscopa, senza proiezioni. Sulla destra di questa, proprio al di sotto della testa del cadavere, una consistente gora. Schizzi irregolari sul muro, in prossimità del cadavere, probabilmente dovuti all’impatto dei proiettili con il cranio o, secondo un elaborato peritale, attribuibili all’effetto del vetriolo versato sulla testa della vittima.

Lesioni da vetriolo

Le lesioni da vetriolo rientrano nella categoria delle ustioni chimiche, o causticazioni, e si differenziano da quelle termiche non tanto nell’aspetto quanto nei rispettivi decorsi clinici: le prime rivelano tempi di guarigione più lunghi.

Nel caso di specie, le ustioni risultarono, all’esame autoptico, inflitte post mortem: le correlate lesioni appaiono prive di eritema ed edema, tratti propri di quelle vitali, come i travasi capillari.

L’ossidazione e l’evaporazione postmortale hanno, inoltre, determinato l’insorgenza di un colorito brunastro, non riscontrabile in ustioni inferte in vita.

La scena del crimine
La scena del crimine

Claire Bebawi

Nel corso dell’indagine, la segretaria di Chourbagi informa gli inquirenti che il suo principale ha di recente ricevuto la telefonata di una donna che pare averlo molto turbato. È giunta nella tarda mattinata di venerdì 17 gennaio.

Nel corso del colloquio, l’uomo, molto a disagio, ha cercato di dissuadere l’interlocutrice dal proposito di venire a Roma, da Losanna, per incontrarsi con lui. La donna, riferisce Karin, si chiama Claire Ghobrial.

Nata al Cairo il 30 giugno 1933, Claire è sposata da circa quindici anni con Youssef Bebawi, ricco uomo d’affari, da cui ha avuto tre figli.

Avvenente e inquieta, la donna, “amante del lusso e dell’eleganza”, trascorre “gran parte del tempo libero fra ateliers d’alta moda e maisons de beauté”. (Costantini, 2006, p. 85).

Claire Bebawi
Claire Bebawi

La coppia vive a Losanna, da cui il marito si allontana spesso per ragioni di lavoro. Proprio a Losanna, nel 1961, Claire conosce Farouk Chourbagi, durante una sfilata di moda. In breve, tra i due nasce una relazione, il cui decorso – a giudicare dalle fonti disponibili – appare tutt’altro che sereno.

Telegramma di Claire Bebawi a Farouk Chourbagi, mercoledì 20 febbraio 1963: “Complicazioni estremamente serie riguardanti te. Prego telegrafare e scrivere immediatamente presso fermo posta. Sto affrontando un disastro.”

Lettera di Farouk Chourbagi a Claire Bebawi, giovedì 21 febbraio: “Questa è la seconda lettera che ti scrivo in due ore, non posso agire, non posso lavorare, non posso respirare. Sono diventato un disperato, pensieroso, incostante e nervoso. Penso al mio fato e al mio futuro, che mi appare denso di nubi.”

Lettera di Youssef Bebawi a Farouk Chourbagi, venerdì 22 febbraio 1963: “Farouk, ti può interessare sapere che io sono pienamente al corrente della relazione disgustosa che continua tra mia moglie e te. […] Tu sei uno sporco ragazzo degenerato. Mia moglie non rimarrà oltre nella mia casa. Ora è disponibile.”

Bebawi è cristiano copto e, all’inizio del 1963, si converte alla fede musulmana proprio per poter ripudiare sua moglie. Vi provvederà con atto registrato nel successivo mese di marzo.

Chourbagi si trasferisce a Roma e il suo rapporto con Claire finisce con il deteriorarsi, tanto da rendere necessario, a parere della donna, un incontro chiarificatore.

Da qui, la sua telefonata all’amante, di poco precedente l’omicidio, per preannunciargli il suo imminente arrivo a Roma da Losanna.

I Bebawi a Roma 

Sabato 18 gennaio: i Bebawi atterrano all’aeroporto di Fiumicino, raggiungono Roma e, verso le 17, prendono alloggio presso l’albergo “La residenza”, in via Emilia nn. 22-24, nei pressi della sede della Tricotex di via Lazio.

Poco dopo, i due, lasciano l’albergo e vi fanno ritorno verso le 18,30.

Al rientro, Bebawi chiede il conto e fa chiamare un taxi. Sale in camera per prendere la valigia e, a quanto emerso in seguito, telefona all’Alitalia per prenotare un volo per Atene il 20 gennaio.

Arresto

I Bebawi giungono a Napoli, proseguono per Brindisi e da qui approdano ad Atene, intenzionati a prendere un aereo per Beirut.

Vengono arrestati dalla Polizia greca su richiesta di quella italiana. Interrogati da poliziotti del nostro Paese, giunti ad Atene, inizialmente negano di essere coinvolti nell’omicidio di Chourbagi.

In attesa del ritorno in Italia, viene disposta una perquisizione della villa dei Bebawi a Losanna: rinvenuti alcuni proiettili le cui caratteristiche merceologiche sembrano coincidere con quelli repertati sulla scena del crimine.

Un testimone, in Svizzera, riferisce che Claire ha recentemente acquistato un flacone di vetriolo.

Strategie difensive

Al processo, presso la Corte d’Assise di Roma, i due sono difesi da prestigiosi avvocati. Youssef viene assistito da Giuliano Vassalli, giurista e politico, cui si deve, tra l’altro, la riforma del processo penale italiano introdotta nel 1989. Sarà Presidente della Corte Costituzionale dal novembre 1999 al febbraio 2000.

La difesa di Claire è curata inizialmente da Giovanni Leone, docente di procedura penale dal 1936, Presidente della Camera dei Deputati, Presidente del Consiglio e, nel 1971, eletto Presidente della Repubblica.

Nel corso del processo, Leone rinuncia al mandato e viene sostituito da Giuseppe Sotgiu, avvocato a sua volta dedito alla politica.

Claire e Youssef Bebawi durente il processo
Claire e Youssef Bebawi durente il processo

In aula, gli imputati sostengono opposte versioni dei fatti. Youssef afferma di aver accompagnato la moglie in via Lazio e che lei era salita da sola da Chourbagi per porre fine alla loro relazione. Di ritorno, sconvolta, aveva ammesso di averlo ucciso e sfigurato con il vetriolo. Lui l’aveva aiutata a fuggire e a disfarsi dell’arma, nonostante l’intervenuto ripudio, perché Claire era pur sempre la madre dei suoi figli.

Claire accusa dell’omicidio il marito che, a suo dire, era entrato nello studio di Chourbagi mentre lei e il giovane stavano parlando, lo aveva aggredito, ucciso e sfigurato con il vetriolo.

L’accusa sostiene che i coniugi Bebawi hanno agito di comune accordo fin dall’inizio: avrebbero pianificato ed eseguito l’omicidio congiuntamente. Vi è, secondo tale interpretazione, una chiara, palese incompatibilità fra i due mezzi con cui si era consumata l’aggressione: la mano che ha sparato non doveva essere stata la medesima che aveva infierito sulla vittima con il vetriolo. Due soggetti, dunque, che avrebbero posto in essere di concerto il medesimo disegno criminoso.

Dall’arringa di uno dei difensori: “Il problema non è di capire chi aveva il motivo più appariscente per uccidere, voi dovete avere la certezza su chi ha ucciso. Se non avete questa certezza dovete assolvere entrambi gli imputati, perché la giustizia e la civiltà esigono questo. Non è incivile assolvere chi ha commesso un delitto, sarebbe incivile condannare un innocente.”

In primo grado, nel 1966, i due vengono appunto assolti per insufficienza di prove. Non vi sono elementi sufficienti per attribuire, oltre ogni ragionevole dubbio, la responsabilità del delitto a uno dei due coniugi o ad entrambi.

Nel 1968, la Corte d’Assise d’Appello sembra non condividere l’assunto garantista che caratterizza la sentenza di primo grado. Pur in assenza di nuovi elementi di prova, condanna i Bebawi a ventidue anni di reclusione per concorso in omicidio.

“La Corte, pur di condannarli dovette ricorrere all’aberrazione per cui venivano reputati colpevoli l’uno per concorso materiale, l’altro per concorso morale senza indicare chi dei due fosse l’esecutore e chi il complice” (Armati e Selvetella, 2005, p. 210).

Condanna confermata in Cassazione, nel 1974.

In ogni caso, i Bebawi non scontano la pena loro comminata: dopo la conclusione del procedimento di primo grado, hanno ritenuto più prudente riparare in Paesi non legati al nostro da accordi di estradizione: lui è tornato in Svizzera a curare i suoi affari, lei si è stabilita in Egitto, dedicandosi all’attività di guida turistica.

Il vero colpevole?

“L’affaire Bebawi continua a spiccare nella storia della criminologia italiana per il modo maldestro in cui sono state gestite le indagini […].” Così Luciano Garofano, già comandante del Ris di Parma, a proposito del delitto e del suo decorso investigativo.

A livello processuale, più di un commentatore ha considerato che le opposte versioni della vicenda fornite dai coniugi Bebawi fossero parimenti plausibili e conformi ai dati raccolti in sede investigativa. Una conclusione che non sembrerebbe, invero, del tutto condivisibile.

Consideriamo brevemente la versione del marito. Sostiene di aver accompagnato la moglie fino a via Lazio e di non essere salito con lei fino allo studio di Chourbagi. Secondo quanto riportato in un articolo del giornalista d’inchiesta Pino Nicotri, sembrerebbe vi sia un testimone che, all’epoca, confermò il fatto.

Secondo Claire, al contrario, il marito avrebbe fatto irruzione nella stanza di Chourbagi mentre questi e la donna erano intenti a parlare e, pare, avessero chiarito i loro contrasti.

Si prospetta un quesito: come avrebbe fatto, Youssef a entrare nell’appartamento senza disporre della chiave? Alcuni dei testi consultati sembrerebbero fornire una possibile risposta: “La porta [d’ingresso dell’appartamento] infatti era dotata di una complicata serratura di sicurezza a ferronetto, che poteva essere agilmente aperta solo usando l’accortezza di tirare uno spago legato al nottolino.” (Armati e Selvetetella, 2005, p. 206).

Non appare del tutto credibile che nella sede di una società commerciale si fosse adottato un simile sistema di accesso, evidentemente idoneo a comprometterne la sicurezza. Per lo meno, tale sistema, se effettivamente sussistente, si sarebbe rivelato inutile quando, nell’appartamento, vi fossero stati il titolare o la sua segretaria (che disponevano entrambi, tra l’altro, di una chiave della porta di ingresso). E comunque, Youssef ben difficilmente avrebbe potuto essene a conoscenza.

Sembrerebbe forse più verosimile che il meccanismo consentisse di chiudere la porta dall’esterno con una mandata, senza l’ausilio della chiave.

Se, in termini di pura speculazione accademica, accettiamo questo dato come valido, la versione dei fatti fornita da Claire decade: il marito sarebbe stato nell’impossibilità di accedere all’appartamento nel modo da lei asserito.

Poi: la donna afferma che Youssef, entrato nello studio, si sarebbe scagliato con violenza contro il rivale e che, tra i due, sarebbe nata una colluttazione. Dal sopralluogo effettuato, risultano del tutto assenti, nello studio di Chourbagi, tracce che lo attestino.

Ancora: i vicini hanno dichiarato di aver udito degli spari e un grido di donna. Se, nella stanza, si fosse effettivamente svolta la predetta colluttazione, gli stessi ne avrebbero con ogni probabilità udito il rumore, come pure gli insulti asseritamente proferiti dal marito, sconvolto, all’indirizzo della moglie.

Senza contare che, disponendo di un’arma da fuoco, il marito non avrebbe avuto alcuna necessità di avventarsi contro il rivale, ponendo a rischio la propria incolumità: sarebbe stato sufficiente, per lui, esplodere i colpi all’indirizzo del giovane. Alcune fonti riferiscono che Youssef fosse particolarmente abile nell’uso delle armi da fuoco e, probabilmente, sparando contro il rivale – tra l’altro, sembra da una distanza ravvicinata – non lo avrebbe mancato e avrebbe subito attinto una sua parte vitale.

“È la prima volta che racconto questo episodio”

Dunque: la versione di Youssef sembrerebbe avere il conforto di un testimone, quella di Claire parrebbe smentita dallo stato dei luoghi in cui l’aggressione si è svolta e dalle risultanze testimoniali.

Riportiamo, in conclusione, una dichiarazione rilasciata, negli anni Settanta, da Giovanni Leone, primo difensore di Claire Bebawi, che in seguito rinunciò al mandato: “Quando l’avvocato di Atene ricevette i coniugi Bebawi, ebbe le confidenze da loro di quello che era accaduto. Questo avvocato, correttamente, si rinchiuse nel segreto professionale e disse: ‘Non posso dire niente perché io sono stato consultato come avvocato.’ […] La sera stessa, una eccellente giornalista, mia amica, che io stimo soprattutto per la sua probità, mi telefonò. Mi disse: ‘Professor Leone, io sono riuscita a parlare a quattr’occhi con l’avvocato greco e questi mi ha detto che ad Atene la Clara Bebawi aveva ammesso di aver ucciso, lei soltanto, Farouk.’ Io sono avvocato di difesa sì per la Bebawi, ma nei confronti del marito io divento avvocato di parte civile perché, per salvare lei, devo accusare lui. So che lui è innocente, la mia coscienza e la moralità professionale me lo vietano. Mi ritirai con un pretesto. È la prima volta che racconto questo episodio.” (Trascrizione da un filmato incluso nella puntata del programma Il Giallo e il Nero trasmessa da Rai Tre il 30 marzo 2013 e dedicata al caso Bebawi: 31m:11s-32m:11s).

Giovanni Leone
Giovanni Leone

Riferimenti

Armati C., Selvetella Y., Roma criminale, Newton Compton, Roma, 2005.

Costantini C., Sangue sulla dolce vita, L’Airone Editrice, Roma, 2006.

Fallaci O., “Due colpevoli di troppo”, L’Europeo n. 5/1965.

Garofano L., “Bebawi, un’indagine imperfetta”, in AA.VV., Casi freddi, Cairo Editore, Milano, 2009.

Minuzzo N., “Il mistero delle tre verità”, L’Europeo n. 23/1966.

Nicotri P., Sabrina, Sarah e i coniugi Bebawi: solo una cordicella unisce i due delitti, https://www.blitzquotidiano.it/facebook/sabrina-sarah-bebawi-cordicella-delitto-609420/ (consultato il 18 febbraio 2025).

Rava E., Roma in cronaca nera, Newton Compton, Roma, 1987.