Un corpo senza testa
Domenica 10 luglio 1955. Lago di Castel Gandolfo, sui Colli Albani, nella zona dei Castelli Romani. È domenica. Il meccanico Antonio Solazzi e il sagrestano Luigi Barboni noleggiano una barca per fare un giro sul lago. Partono dalla sponda meridionale. La traversata è faticosa, i due decidono di approdare nella zona “Belvedere”, sul lato orientale, per risposarsi un poco prima di rientrare. Tra i cespugli giace il corpo di una donna. Nudo e privo della testa. Presi dal panico, i due si allontanano rapidamente dalla zona. Non denunciano subito il fatto, temono di rimanere coinvolti nell’indagine. Solazzi chiede però consiglio sul da farsi a un amico carabiniere, che lo sollecita a rivolgersi alle autorità.
“Il corpo della donna era come piegato tra due cespugli”, riferisce Solazzi, “le gambe erano tese un po’ in alto. Il collo, da cui era stata mozzata la testa proprio alla radice, era rivolto verso il lago. La donna era nuda, un orologio le stringeva il polso tutto raggrumato di sangue.”
Sulla scena del crimine giungono il Procuratore della Repubblica di Velletri, il Capo sella Sezione omicidi della Questura di Roma, il Comandante della stazione dei Carabinieri di Castel Gandolfo, il Commissario di Polizia di Marino. Iniziano le indagini, affidate al commissario Ugo Macera.
L’Unità, 13 luglio 1955: “Il cadavere appartiene ad una giovane donna, dalla carnagione soda e abbronzata dal sole, di statura media, ben conformata. Le unghie delle mani e quelle dei piedi sono estremamente curate e dipinte con una lacca rosata. Nonostante lo stato miserando nel quale la salma è stata rinvenuta, non è stato difficile stabilire che la vittima era una donna di aspetto curato, dalle membra snelle ed eleganti e di un’età tra i 19 e i 26 anni.”
All’esito dell’esame dei luoghi, si ipotizza che la decapitazione sia avvenuta nel punto del ritrovamento, perché il terreno sottostante il cadavere risulta impregnato di sangue fino a una profondità di dodici centimetri. Il corpo è parzialmente coperto con i fogli di una copia del quotidiano Il Messaggero di martedì 5 luglio 1955. A poca distanza, rinvenuti un portachiavi e un orecchino con pendaglio che sembrerebbero appartenenti alla vittima.
Accertamenti
Concluso l’esame autoptico, il medico legale stabilisce che, prima di essere decapitata, la donna è stata ripetutamente accoltellata all’addome e alla schiena. La testa sembra essere stata asportata con una tecnica nota solo a un medico o a un esperto di anatomia. Accertato, inoltre, un aborto recente.
Questi i dati relativi alla donna uccisa diffusi dalla Questura, a integrazione e rettifica di quanto in precedenza emerso: “1) l’età della morta può presumersi dai 28 ai 35 anni circa; 2) corporatura media, con altezza non superiore a m 1,60 e gambe dritte; 3) pelle bruna con formazioni pilifere di colore scuro, quasi nero, e peli diffusi sulle gambe; 4) unghie dei piedi e delle mani sufficientemente curate; 5) sul corpo è stata sicuramente rilevata una cicatrice nel quadrante inferiore destro dell’addome riferibile a un intervento chirurgico per appendicite; 6) la vittima risulta inoltre aver subito un’operazione agli organi genitali interni, con asportazione del corpo dell’utero e dell’ovaia di sinistra.”
L’ovariectomia sembrerebbe invero essere stata effettuata in un momento assai prossimo alla morte. Tanto da legittimare l’ipotesi che l’asportazione e la decapitazione siano opera del medesimo soggetto provvisto di pratica chirurgica. All’esito di una seconda autopsia, l’asportazione viene invece descritta come “grossolana, un lavoro da macellaio”. Le ovaie risulterebbero letteralmente strappate e si profila lo scenario di un aborto casalingo conclusosi tragicamente.
Nessuna traccia della testa recisa. I sommozzatori effettuano senza successo ripetute esplorazioni del fondale del lago.
La rilevanza del caso varca i confini nazionali. Agenti di Scotland Yard impegnati a indagare su alcune turiste inglesi presumibilmente scomparse in Italia, giungono ad Albano per acquisire elementi sulla vicenda.
Identificazione
Utile ai fini dell’identificazione si rivela l’orologio che la vittima portava al polso. Marca “Zeus”, un modello particolare e prezioso, con quindici rubini incastonati, prodotto solo in centocinquanta esemplari.
Al momento dell’esame del cadavere, è fermo alle 3,36. Secondo alcuni, potrebbe essere l’ora del delitto, che si suppone commesso tra il 5 e il 6 luglio. Ma è ovviamente possibile che le lancette “non segnino l’ora della morte della giovane donna, ma semplicemente il momento in cui la carica si è esaurita.”
L’oggetto risulta essere stato acquistato a Camerino, nelle Marche. Tra le denunce recenti di persone scomparse, la Polizia ne individua una relativa a una giovane donna che ha abitato proprio a Camerino, prima di trasferirsi a Roma per lavoro.
Si chiama Antonietta Longo, nata il 25 luglio 1925 a Mascalucia, in provincia di Catania. È la più giovane di quattro fratelli. Il padre, di professione barbiere, è morto all’improvviso lasciando la famiglia nell’indigenza. A quattro anni, Antonietta è stata affidata a un collegio di suore. Raggiunta la maggiore età, ha rifiutato di prendere i voti e, abbandonato il collegio, si è stabilita a Camerino, presso la sorella Grazia (il cui figlio le ha fatto dono dell’orologio “Zeus”).
Nel 1949 ha trovato un’occupazione come domestica e dama di compagnia presso la famiglia di Cesare Gasparri, un funzionario del Ministero dell’Agricoltura, che abita a Roma, in via Poggio Catino, nel quartiere africano. L’identificazione viene confermata proprio grazie all’analisi delle impronte digitali della donna, acquisite in casa Gasparri.
Antonietta
L’indagine si concentra quindi sulla ricostruzione dei movimenti e delle frequentazioni di Antonietta Longo. Si accerta che, anni prima, è stata fidanzata con un impiegato del Ministero dell’Agricoltura e che, tra gli uomini con cui ha in seguito stretto rapporti, ve ne sarebbero alcuni poco raccomandabili. Grazia, la sorella, riferisce di averla incontrata circa un mese prima del delitto e di essere rimasta colpita dalla sua eleganza. Emerge che, in precedenza, Antonietta ha ritirato, dall’ufficio postale di piazza San Silvestro, tutti i suoi risparmi, ammontanti a 231.120 lire, una somma discretamente ragguardevole per allora.
Il 4 aprile 1955, la giovane ha affidato al deposito bagagli della stazione Termini una valigia piena di indumenti. Il 24 giugno, ha acquistato un’altra valigia, biancheria, vestiti (tra cui, un abito blu comprato per 6.900 lire da Maes, in piazza Sant’Emerenziana), oggetti vari. 26 giugno: ha chiesto le ferie ai Gasparri. 30 giugno: ha ritirato una missiva al fermo posta. Primo luglio, ore 20,30: è partita per le ferie, recando con sé – a quanto appurato – un biglietto del treno per la Sicilia. Ma si accerta che ha trascorso alcune notti in una pensione. 4 luglio: ha lasciato al deposito bagagli anche la valigia acquistata il 24 giugno.
Il giorno del delitto
5 luglio, presumibilmente il giorno dell’omicidio: Antonietta avrebbe inviato da Roma una lettera alla famiglia, annunciando il suo imminente matrimonio, ma non disponiamo del documento, viene menzionato da una fonte che ne avrebbe preso visione. Parlando del futuro marito, avrebbe scritto: “Fra poche ore sarò sua e saprò darvi un bel nipotino.”
Secondo un’altra fonte, il testo sarebbe il seguente: “Tra due ore mi sposerò con l’uomo che profondamente amo e dal quale sono sicura di essere ricambiata. Quando lo conoscerete sono sicura che piacerà anche a voi. Spero presto di potervi dare la gioia di un nipotino e vogliate perdonarmi se di tutto questo non vi ho parlato prima. Ai Gasparri non dite nulla, dite magari soltanto che mi sono trovata un altro servizio.”
Lo stesso giorno, la donna, in compagnia di un uomo, avrebbe preso a nolo una barca presso il lago di Castel Gandolfo, ritrovata l’indomani in un canneto, con un solo remo. È quanto riferisce Primo Petriconi, proprietario di una trattoria locale, nonché dello stabilimento Paradiso, che ha appunto noleggiato la barca alla coppia.
Si accertano ulteriori fatti, verosimilmente collocabili tra il primo e il 5 luglio. La cassiera di un bar testimonia che Antonietta le avrebbe chiesto di chiamare per lei al telefono un certo Antonio. Il numero iniziava con “7”, il che collocherebbe l’utenza in zona Appia o Tuscolana.
La giovane si sarebbe poi recata da un sarto per ordinare un vestito e, nella circostanza, sarebbe stata in compagnia di un uomo. Le valigie al deposito bagagli risultano contenere, tra l’altro, un corredo matrimoniale.
Nessuna traccia dei risparmi di Antonietta.
Rivelazioni o menzogne?
Le amiche descrivono la giovane come una persona perbene, che di recente ha lamentato problemi economici. Il periodico Realtà illustrata, pubblica un’intervista alla diciannovenne Lina Federico, amica siciliana di Antonietta a sua volta stabilitasi a Roma come domestica. Costei dichiara che la vittima le avrebbe confidato di aspettare un figlio dal suo datore di lavoro e che questi sarebbe stato intenzionato ad affidarla a un suo amico medico per farla abortire.
Chiamato direttamente in causa, Cesare Gasparri si difende querelando l’autrice delle dichiarazioni. L’uomo chiede di incontrare il commissario Macera, responsabile dell’indagine. I due si vedono alle 8,30 del 26 settembre in un bar di via Nazionale, poco distante dalla Questura centrale. “In una saletta privata del locale, il Gasparri e il Macera hanno parlato per oltre tre quarti d’ora”, riporta il trafiletto di un quotidiano che non siamo riusciti a identificare. “Nulla si sa di ciò che è stato detto; ma si ritiene, per la durata della conversazione e per le strane circostanze in cui è avvenuta, che molti elementi importanti e fino ad ora sconosciuti, sono scaturiti da questo ‘incontro segreto’.”
Un altro caso insoluto
Gli investigatori, nel frattempo, rintracciano e interrogano un uomo di nome Antonio, forse il fidanzato della vittima. Secondo alcuni giornali si tratterebbe di un fruttivendolo traferitosi a Salerno il 4 luglio, dopo aver venduto il suo negozio a Roma. In ogni caso, non si acquisiscono elementi utili a fini di indagine.
L’inchiesta, nonostante l’impegno con cui viene condotta, non approda a nulla. Anche quello di Antonietta Longo sembra destinato ad accrescere la già fin troppo folta schiera dei casi irrisolti del nostro Paese.
Due anni dopo l’omicidio, un compaesano della giovane vittima, detenuto presso il carcere di Regina Coeli, accusa suo cognato, Giuseppe Bucceri, di essere il responsabile dell’omicidio. “È un uomo abituato a truffare le donne promettendo di sposarle”, rivela. “Una volta, a una donna che aveva minacciato di denunciarlo, aveva detto che se lo avesse fatto le avrebbe tagliato la testa.”
Gli investigatori percorrono la pista brevemente, senza approdare a nulla di concreto e ritengono di poter concludere che le rivelazioni di Bucceri altro non siano che i vaneggiamenti di un mitomane.
Tracce di sangue
Nel 1971, a sedici anni dai fatti, due lettere anonime pervengono al Procuratore generale della Corte d’Appello di Roma e all’ex datore di lavoro di Antonietta, Cesare Gasparri. Sostengono che la Longo sarebbe morta per un’emorragia verificatasi nel corso di un aborto clandestino, cui era stata costretta a sottoporsi per volere del suo fidanzato, Antonio. Questi sarebbe stato un pilota delle linee aeree civili a capo di una banda di contrabbandieri, già sposato. Secondo lo scritto anonimo, le molteplici ferite inflitte al ventre della donna avrebbero costituito un tentativo di cancellare appunto le tracce dell’asportazione delle ovaie subita durante l’aborto.
Il decesso della donna sarebbe avvenuto nello scantinato di uno stabile sito in via Livorno n. 41 dove, in effetti, all’epoca della morte di Antonietta, il custode aveva rinvenuto tracce di sangue. Per evitare l’identificazione del cadavere, si sarebbe quindi provveduto a decapitarlo e a sciogliere la testa nell’acido, oltre che ad abbandonare il tronco presso il lago di Castel Gandolfo.
Anche questa pista viene percorsa dagli investigatori, si ritraccia e si interroga un certo Antonio. Ma, a quanto sembra, senza che emergano dati ritenuti conclusivi.
Nel 1987 un pescatore rinviene nel lago di Castel Gandolfo un teschio umano. Si valuta ovviamente la possibilità che sia quello di Antonietta ma gli accertamenti rivelano che appartiene a un uomo, coinvolto in chissà quale vicenda di cui non si è mai saputo nulla.
Un’ipotesi recente
Nel 2022, il bisnipote di Antonietta Longo (figlio di quel parente che aveva donato l’orologio alla giovane) dà alle stampe un corposo volume nel quale propone una documentata ricostruzione della vicenda, fornendone anche una possibile, inedita interpretazione.
Intervistato in tema, con riferimento in particolare all’orologio trovato al polso della vittima, considera: “Ci sono ipotesi che avallano l’errore umano dell’assassino, peraltro con ricostruzioni abbastanza semplicistiche e superficiali, secondo me. Tu assassino, commetti con orribile ferocia, un delitto del genere, squarci il cadavere asportandone l’intero apparato riproduttivo, lo denudi completamente, fai scomparire la testa e, guarda caso, dimentichi di togliere l’orologino dal polso, unico elemento che può portare all’identificazione del cadavere. […] Secondo me, non ci fu un errore, ma consapevolezza dell’azione.”
A cosa avrebbe teso detta consapevole azione, secondo tale prospettiva? “Era forse tutto un piano preordinato coordinato da una mente sopraffina desiderosa di nascondere uno scandalo che avrebbe potuto travolgere tutto e tutti e che dettava i tempi dell’inchiesta?” , si chiede l’Autore del volume. “L’impianto narrativo del libro si basa sull’ipotesi che la scena del delitto non fosse altro che una gigantesca messinscena ricostruita ad arte, funzionale a depistare le indagini e giustificare l’assenza di Antonietta. Secondo le ipotesi da me avanzate, Antonietta non fu deliberatamente uccisa, ma morì per altre cause e successivamente il suo cadavere fu trasportato sulle rive del lago Albano per avallare la tesi del delitto passionale. Mi pare però evidente che il vilipendio e l’occultamento di cadavere siano reati molto gravi, unitamente al fatto che si tentò, con successo, di sviare le indagini nel riuscito tentativo di non far emergere la verità e proteggere qualcuno. Penso inoltre che fu imposto dall’alto, un profilo basso agli inquirenti, al fine di arrivare a un’archiviazione rapida e senza ulteriori conseguenze.”
Dunque, si sarebbe trattato di un sottile e perverso disegno atto a nascondere una morte conseguente ad “altre cause” e dettato dall’asserita esigenza di scongiurare uno scandalo dalle proporzioni devastanti. Viene quindi spontaneo chiedersi: 1) quali sarebbero state le effettive cause del decesso della Longo; 2) chi avrebbe potuto contare su supporti e collusioni tali da imbastire una simile messa in scena.
Per quanto riguarda il primo quesito, nel presente contributo la causa del decesso si è già delineata in termini di possibilità: un aborto clandestino dall’esito fatale. È lo stesso partente della Longo a farvi esplicito riferimento in un’altra intervista rilasciata a ridosso della pubblicazione del suo libro. Quanto al soggetto per proteggere il quale la macabra messa in scena sarebbe stata orchestrata (e attuata senza sbavature, errori, contingenze sfavorevoli, ripensamenti e pentimenti), l’Autore dello studio non manca di evocare, in termini ovviamente di mera congettura, la sua possibile identità.
Riepilogando, dunque, quanto riteniamo di aver compreso dell’assunto qui considerato: un uomo che sembra vantare molti utili contatti, mette incinta una giovane domestica. La induce ad abortire clandestinamente e, durante la procedura, la giovane muore. Al fine di non essere coinvolto in uno scandalo, l’uomo attiva i suoi contatti per mettere in scena un omicidio: chi si assume l’onere di attuare tale piano, tenta grossolanamente di rimuovere le tracce del recente aborto e decapita la vittima. Le lascia però al polso l’orologio per consentirne l’identificazione, nella speranza che gli investigatori – che il suddetto uomo dai molti contatti riesce peraltro immancabilmente e infallibilmente a manovrare – siano tratti in errore e ritengano che la morte della giovane possa classificarsi come omicidio passionale.
A nostro sommesso avviso, una simile ipotesi – di certo legittima e, come le altre, meritevole di essere accuratamente percorsa – appare caratterizzata da alcune criticità. In questa sede ci limiteremo a osservare che, al fine di scongiurare il paventato scandalo conseguente all’aborto clandestino conclusosi tragicamente, sarebbe risultato sufficiente e più agevole disfarsi del corpo della vittima (e, di certo, gli ipotizzati contatti influenti del soggetto coinvolto lo avrebbero consentito). Di Antonietta Longo si sarebbero così perse definitivamente le tracce e una eventuale denuncia di scomparsa presentata dai familiari avrebbe dato vita a una indagine del tutto inconcludente.
Lo scenario che vede l’orologio lasciato sulla vittima proprio per consentirne il riconoscimento e prospettare il delitto passionale è ingegnosamente concepito in termini teorici e non sfigurerebbe nella trama di un maestro del cosiddetto giallo classico ma, nella realtà – che pure appare assai prodiga di stranezze e inattesi sviluppi – sembra più difficile da accettare come plausibile.
E, a proposito dell’orologio da polso, come abbiamo potuto constatare, in un’intervista del 2 agosto 2022, parlando del suo rinvenimento sul corpo della vittima, l’Autore afferma: “Secondo me, non ci fu un errore, ma consapevolezza dell’azione.” Appena due anni prima, in un’intervista pubblicata il 16 febbraio 2020 sul Corriere della Sera, lo stesso si dice al contrario persuaso che “L’assassino si dimenticò di toglierlo, oppure pensò fosse un oggetto comune. Invece non lo era.”
Su un aspetto ci sembra invece di concordare con l’Autore del libro, laddove prospetta la possibilità che l’omicidio e la decapitazione non siano avvenuti nel luogo del rinvenimento del cadavere. Una simile eventualità verrà recuperata a breve, sia pure inscritta in una differente cornice teorica.
Un delitto a connotazione maniacale?
Tra le ipotesi emerse in sede di indagine, anche quella dell’omicidio compiuto da un soggetto affetto da peculiari problematiche psichiche. Certo, il dato della decapitazione della vittima non ha mancato di suscitare raccapriccio, legittimando scenari correlati ad assassini animati da moventi atipici e non inquadrabili entro categorie razionali. Dunque, la decapitazione e la mutilazione come atti intimamente gratificanti e non rispondenti a precise strategie depistanti.
Se adottiamo, come ipotesi di scuola, il presupposto di un delitto caratterizzato da simili tratti distintivi, non possiamo non valutare l’eventualità che un fatto del genere possa inscriversi in una prospettiva seriale.
Come è stato posto in evidenza dalla letteratura specialistica, l’omicida che pone ripetutamente in essere le proprie aggressioni con quello che è stato definito intervallo di raffreddamento emotivo tra un delitto e l’altro (cooling-off period) , opera nella maggioranza dei casi perché trae dalle proprie azioni una intima, profonda gratificazione. Da qui, dunque, la tendenza alla reiterazione, riproponendo tendenzialmente a oltranza un approccio operativo, un rituale che viene via via approntando e finalizzato, nelle sue modalità esplicative, a garantirgli appunto il massimo appagamento.
La casistica criminologica registrata in Italia a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta del Novecento ci porta a escludere che, all’epoca, nel nostro Paese abbia operato un serial killer la cui “signature” consistesse nella decapitazione della vittima e nell’asportazione dell’apparato riproduttivo di quest’ultima. Percorrere la prospettata ipotesi del soggetto animato da approccio manicale richiederebbe dunque la formulazione di almeno due scenari alternativi:
1) il soggetto, in eventuali, successivi delitti, potrebbe aver adottato una “firma” dai tratti meno estremi e caratterizzanti, tale da non essere facilmente riconducibile al delitto originario;
2) il soggetto, per varie possibili ragioni, non ha compiuto successivi delitti e, dunque, non ha riproposto la propria, peculiare firma.
Alla luce della letteratura criminologica, lo scenario sub 1) potrebbe non risultare del tutto convincente. Gli studiosi ci dicono che, in un delitto a connotazione maniacale, la “personation” – i comportamenti che eccedono gli atti strettamente necessari al compimento del delitto e che consistono una proiezione sulla vittima e sulla scena del crimine delle fantasie problematiche del soggetto agente – tendono a ripetersi da un delitto all’altro (“signature”, appunto) con le medesime caratteristiche, senza registrare sostanziali cambiamenti. Certo, in termini contingenti, tra un episodio e l’altro, potrà registrarsi una personation non del tutto sovrapponibile e, eventualmente, una sorta di “evoluzione”, comunque nell’abito della medesima modalità. Sembrerebbe essere, ad es., il caso di Jack lo Squartatore (le cui modalità di attacco presentano alcuni tratti non dissimili rispetto a quelle dello sconosciuto autore del delitto di cui ci stiamo occupando): dopo aver sgozzato le vittime, le eviscerava rimuovendone gli organi riproduttivi e l’intestino. Nel caso dell’ultima vittima (Mary Jane Kelly, 9 novembre 1888), forse perché ha operato nella di lei abitazione e non per la strada come in precedenza, l’omicida ha letteralmente dissezionato il suo corpo. In ogni caso, se, nel colpire, l’omicida seriale sperimenta soddisfazione, appare improbabile che, nelle aggressioni successive, riesca a trattenere i propri impulsi in modo da adottare una personation meno appagante.
Lo scenario considerato sub 2) potrebbe risultare maggiormente credibile, visto quanto posto in premessa: il soggetto, dopo un primo delitto dalle gratificanti connotazioni maniacali, potrebbe aver smesso di uccidere. E ciò potrebbe ad esempio conseguire a un decesso o a un ricovero presso una struttura psichiatrica: con minor probabilità, da una decisione spontaneamente assunta, stante la già rimarcata, tendenziale attitudine di tale tipologia di assassini a ripetere a oltranza le proprie aggressioni. Una ipotesi del genere è stata da taluni avanzata con riferimento a un’altra drammatica vicenda, l’omicidio di Elizabeth Short, la “Dalia Nera”, rinvenuta senza vita il 15 gennaio 1947 a Los Angeles. Il suo corpo era nudo, squarciato in due parti all’altezza della vita, con vistosi segni di tortura. Il sangue era stato completamente drenato dai resti mortali. Aveva i capelli tinti di rosso e il volto risultava mutilato da un profondo taglio da un orecchio all’altro. Anche in questo caso, tutt’ora irrisolto, si sono nutriti sospetti nei confronti di medici, si sono evocati scenari connessi ad aborti clandestini ed è stata presa in considerazione la possibilità che l’omicidio potesse attribuirsi a un serial killer o, comunque, a un omicida a connotazione maniacale, per qualche ragione non in grado di reiterare aggressioni così peculiarmente connotate.
In effetti, mutatis mutandis, tra il caso di Elizabeth Short e quello di Antonietta Longo potrebbero rilevarsi alcuni punti di contatto e analogie, per certe modalità esecutive e per le circostanze del rinvenimento. A proposito della scena del crimine, è radicato il convincimento che il ritrovamento di Elizabeth sia avvenuto in un luogo diverso rispetto a quello in cui la vittima è stata uccisa e torturata.
Nel caso di Antonietta Longo, come abbiamo visto, si è ipotizzato che l’aggressione omicida, la decapitazione e la rimozione degli organi riproduttivi siano stati posti in essere nello stesso luogo in cui si sarebbe poi verificato il rinvenimento. A sostegno di ciò, si è detto allora, il fatto che, in prossimità del tronco senza testa del cadavere, il terreno è apparso abbondantemente intriso di sangue. Il che ha posto, ovviamente, il problema di dove fosse stata collocata la testa. L’omicida l’ha portata con sé? E in che modo, senza essere visto? L’ha gettata nel lago?
Ma, in tema di ipotesi, sarebbe tanto improbabile supporre che anche la Longo sia stata uccisa e decapitata altrove? Una possibilità del genere meriterebbe, a nostro avviso, di essere percorsa, insieme alle altre. Il dato del terreno intriso di sangue ben potrebbe comunque spiegarsi, riteniamo, con il prolungato contatto di quest’ultimo con l’estesa ferita della decapitazione, anche nell’eventualità che quest’ultima sia stata posta in essere altrove.
Ulteriore elemento di rilevanza criminologica è costituito dal rinvenimento del quotidiano collocato a coprire parte dei resti mortali. Dettaglio che richiama alla mente un altro caso criminale italiano che, pur ascrivibile ad altra tipologia di soggetto agente, presentava un aspetto del tutto identico. I delitti del cosiddetto Mostro di Roma, serial killer pedofilo che ha colpito nella Capitale tra il 1924 e il 1927 rapendo, violentando e, in alcuni casi, strangolando bambine tra il due ed i sei anni, e non di rado ricoprendole appunto con le pagine di un quotidiano.
Applicando le categorie del criminal profiling, in entrambi i casi si prospetta la possibilità (ovviamente da sottoporre alle necessarie verifiche) che un simile gesto possa ricondursi alla categoria del cosiddetto undoing. In determinati casi, dopo il delitto, l’offender può sentire l’esigenza di annullare, sul piano emotivo, l’azione appena commessa, ponendovi simbolicamente rimedio. Il che potrebbe avvenire, ad esempio, componendo il corpo, coprendolo, rimuovendo le tracce delle ferite, etc.: si tratterebbe di una particolare tipologia di personation. Tale gesto post mortem potrebbe attestare la sussistenza di uno stretto legame emotivo tra aggressore e vittima o anche, forse, la sola consapevolezza della gravità del gesto compiuto.
Una singolare assonanza
La possibilità che Antonietta Longo sia rimasta vittima di un serial killer, ancorché solo potenziale, è ovviamente qui prospettata in termini di mera ipotesi di scuola, comunque non priva, ci sembra, di qualche plausibilità criminologica. Se, nell’Italia del secondo dopoguerra, non si sono verificati omicidi seriali accomunati dal dato della decapitazione, negli Stati Uniti degli anni Trenta tale fenomeno si è registrato, segnatamente nello stato dell’Ohio evidenziando, in alcuni casi, alcune assonanze con il delitto Longo.
L’assassino conosciuto come Macellaio di Cleveland, o Macellaio pazzo di Kingsbury Run, ha commesso almeno dodici o tredici omicidi tra il 1934 e il 1938. Secondo alcune indagini, gli si potrebbero invero attribuire oltre quaranta vittime, tra gli anni Venti e gli anni Cinquanta, nella zona ricompresa tra Cleveland, Pittsburgh e Youngstown (Ohio).
Ha ucciso donne e uomini, sempre appartenenti alle classi sociali meno elevate, facili prede nella Cleveland degli anni della Grande Depressione. Si trattava sovente di vagabondi o di lavoratori a basso reddito, che vivevano in baraccopoli presso le paludi.
L’omicida decapitava le vittime, in alcuni casi smembrandole e, talvolta, tagliandone anche il torso in due. Si riteneva che palesasse pratica chirurgica. Molti degli uomini uccisi sono stati evirati. Alcuni dei corpi presentavano tracce di trattamenti chimici.
Problematico dare un nome alle vittime. La seconda, la terza e l’ottava sono state identificate come Edward Andrassy (rinvenuto il 23 settembre 1935), Florence Genevieve Polillo (ritrovata il 26 gennaio 1936) e Rose Wallace (i cui resti mortali sono stati rinvenuti il 6 giugno 1937, ma permangono dubbi sulla sua effettiva identità).
Tra le vittime non pacificamente attribuite al Macellaio di Cleveland, la donna ritrovata – senza testa – il 5 settembre 1935 in riva al lago Erie, presso Euclid Beach Park e soprannominata la “Signora del lago”.
Altra vittima non rientrante ufficialmente tra quelle del soggetto, Robert Robertson. Rinvenuto decapitato in un negozio al numero 2138 di Davenport Avenue, a Cleveland, il 22 luglio 1950, cinque anni prima del delitto di Antonietta Longo.
Poi, il Macellaio – che taluni ritengono anche responsabile dell’omicidio di Elizabeth Short – sembra non aver più colpito nelle sue zone preferenziali. È morto, è stato arrestato per altri motivi, è stato definitivamente internato in una struttura psichiatrica o, per qualche ragione, si è traferito altrove? Certo, la possibilità che possa essere l’autore del delitto di Castel Gandolfo appare quantomai romanzesca e richiederebbe, per essere accettata come plausibile dal punto di vita criminologico, un’audace costruzione interpretativa e argomentativa. Resta il dato della singolare assonanza di alcune modalità operative adottate nei delitti del Macellaio di Cleveland con le caratteristiche dell’omicidio di Antonietta Longo. E, secondo l’ipotesi fin qui percorsa, della verosimile sovrapponibilità del profilo dell’autore di quest’ultimo con certi tratti personologici del serial killer statunitense.
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