Omicidi, aggressioni e retroterra familiare
Mercoledì 8 dicembre 1870. Siamo in Lombardia, nella Bassa Bergamasca. La quattordicenne Giovanna Motta sta percorrendo l’antica strada carraia che unisce i paesi di Bottanuco e Suisio. Lavora come cameriera e si sta recendo a fare visita ai suoi genitori. Scompare nel nulla. E viene ritrovata quattro giorni dopo, senza vita. Il suo cadavere risulta mutilato: il collo reca segni di morsi; gli organi genitali e le interiora sono stati asportati; la carne di uno dei polpacci, strappata. Accanto al corpo straziato di Giovanna, alcuni spilloni utilizzati per seviziare ulteriormente la vittima.
Il responsabile dell’atroce aggressione omicida non viene individuato.
Martedì 29 agosto 1871. In un campo di Bottanuco viene rinvenuto il cadavere di Elisabetta Pagnoncelli. Anche in questo caso, si riscontrano segni di morsi sul collo, organi asportati e lembi di carne strappati.
Il colpevole viene arrestato nel gennaio 1873. Si chiama Vincenzo Verzeni. È nato a Bottanuco l’11 aprile 1849, da una problematica famiglia di contadini. Il padre Giacomo è alcolizzato e violento, la madre, Giuseppa Dogoni, soffre di epilessia. Gli impongono frequentazioni assidue di cerimonie religiose e una rigorosa astinenza sessuale. Dalle fonti risulta che il giovane possiede un’intelligenza nella media ma che registra uno scarso rendimento scolastico a causa dell’incapacità di concentrarsi a lungo. Introverso, ha trascorso l’adolescenza in solitudine, spesso picchiato dal padre e dallo zio. Ha iniziato molto presto a lavorare nei campi e ha precocemente palesato attitudini volente e sadiche, strangolando e squartando polli e traendone soddisfazione sessuale. Attitudini, queste, tenute ben celate dai familiari.
Nel 1867 ha tentato di mordere sul collo, nel sonno, la cugina Marianna, ma è fuggito spaventato dalle grida della giovane. Nel 1869 ha aggredito Margherita Esposito e, nel corso della colluttazione, ha riportato ferite al volto ed è stato in seguito identificato dalla polizia, senza che siano stati adottati provvedimenti nei suoi confronti. Lo stesso anno, Angela Previtali ha denunciato Verzeni per averla rapita, trattenuta per alcune ore in una zona disabitata e infine liberata. Sempre nel 1869, Barbara Bravi, una contadina, è stata attaccata da uno sconosciuto, dileguatosi ben presto perché la donna ha opposto resistenza. La Bravi non è stata in grado di fornire dello sconosciuto una descrizione utile all’indagine: dopo il suo arresto, Verzeni non escluderà di essere l’autore dell’aggressione.
Il 10 aprile 1871 Verzeni ha importunato Maria Galli, un’altra contadina, strappandole il fazzoletto. La donna lo ha segnalato alla polizia. Il 26 agosto dello stesso anno ha spintonato con violenza Maria Previtali (nessun legame di parentela con Angela), tentando di morderla al collo. E, pochi giorni dopo, l’omicidio della Pagnoncelli.
La perizia di Lombroso
Lo psichiatra e criminologo Cesare Lombroso (1835-1909) viene incaricato dalla Corte di Assise di Bergamo di sottoporre il soggetto a perizia. Dopo approfonditi esami, lo studioso veronese, che nel 1876 avrebbe pubblicato la prima edizione de L’uomo delinquente, trova Verzeni affetto da due patologie molto diffuse all’epoca tra la popolazione rurale italo-settentrionale: la pellagra, causata da carenza di vitamine del gruppo B e altre sostanze fondamentali, a causa di una dieta sbilanciata in favore del mais, e il “cretinismo”, determinato da mancanza di iodio, derivante anch’essa da malnutrizione.
Classifica il giovane come “un sadico sessuale, vampiro, divoratore di carne umana.” Lombroso invoca per Verzeni una diminuzione di responsabilità tenendo conto del deficit morale ingeneratogli dalla famiglia d’origine, in cui “domina sovrana la bigotteria e l’avarizia” che avrebbero indotto in lui “necrofilomania o pazzia per amori mostruosi o sanguinari”.
Individua, altresì, casi di alterazione mentale proprio tra i suoi congiunti. Il padre dell’omicida, oltre che alcolizzato e violento, risulta ipocondriaco, un cugino soffre di iperemia cerebrale, un altro è cleptomane. Due dei suoi zii sono affetti da “cretinismo”, un terzo è microcefalo, imberbe, privo di un testicolo e con l’altro atrofizzato.
Psychopathia sexualis e “lust murderer”
Vincenzo Verzeni e le sue peculiari problematiche psicosessuali non mancano di sollecitare l’interesse dello psichiatra e neurologo tedesco Richard von Krafft-Ebing (1840-1902), che include la sua vicenda tra i circa cinquecento casi clinici presi in esame nel suo Psychopathia sexualis, pionieristico studio dei comportamenti sessuali devianti.
Il caso (n. 21) viene ricostruito nella sezione dedicata all’assassinio “per lussuria” e l’Autore considera che esso “racchiude in sé tutto ciò che la scienza moderna conosce sulla correlazione tra lussuria, omicidio per lussuria e antropofagia […].”
La categoria criminologica che l’autore sembra prefigurare è, sotto più di un aspetto, quella dell’omicida seriale edonista proteso al piacere sessuale (“lust murderer”) proposta da Ronald e Stephen Holmes in uno studio del 1998. Secondo gli Autori, questo serial killer “è motivato dal sesso – un fattore potente in lui che lo obbliga ad agire quando la coazione sessuale reclama soddisfazione. Questo criminale sviluppa fantasie di estrema intensità, che gli forniscono tra l’altro un rituale per gli atti predatori perpetrati sulla sua vittima.”
Circa le modalità operative di tale tipologia di soggetto, Holmes e Holmes spiegano: “Il killer che uccide per piacere ha bisogno di un contatto di tipo fisico, ‘a pelle’, con la vittima. Questo può avvenire sotto forma di un brutale assalto, realizzato con un’arma impugnabile come un coltello, oppure con lo strangolamento che, naturalmente, esige un contatto diretto con il corpo della vittima. Non sono infrequenti gli atti di necrofilia.”
Certo, categorie criminologiche del genere non sono da ritenersi applicabili in modo rigido e dogmatico, è ovviamente possibile che, nella realtà, soggetti pure di massima riconducibili ad esse rivelino peculiarità non necessariamente descritte e codificate dai ricercatori. In tema di vittimologia, Holmes e Holmes affermano che il lust murderer tenda a porre in essere una accurata selezione della vittima (parlano, in tal senso, di tipo di vittima ideale, TIV). “Quest’ultima, dunque”, scrivono, “deve in qualche modo risultare sessualmente attraente per l’assassino: può trattarsi del colore dei capelli, della corporatura, o di qualunque altra caratteristica esteriore giudicata attraente dal killer.”
Nel caso di specie, Verzeni sembrerebbe, invece, porre in essere le sue aggressioni senza effettuare una selezione particolarmente attenta, animato solo, saremmo indotti a ritenere, da un impulso sessuale non contenibile. Rivolge la propria attenzione alle donne, certo, ma senza ricercarne un tipo particolare, di una specifica fascia d’età.
Il processo e le dichiarazioni di Verzeni
Un giornalista della Gazzetta di Bergamo, in aula durante il processo a Vincenzo Verzeni, lo descrive come “un giovanotto con capelli biondi, con due fini mustacchi dello stesso colore, con lineamenti regolari, d’aspetto florido, di fisionomia che quasi potrebbe dirsi simpatica, se non avesse un’espressione alquanto cupa, ed uno sguardo semilosco. È vestito da contadino agiato. Non dà alcun segno di commozione.”
Dopo il processo, lo stesso Verzeni – cui la stampa non ha mancato di attribuire varie denominazioni ad effetto, tra cui il “Vampiro della Bergamasca” – riferisce a Lombroso: “Io ho veramente uccise quelle donne e tentato di strangolare quell’altre […] in quantoché appena metteva loro le mani addosso sul collo […] ne sentiva un gran gusto […]. La prima non la strozzai del tutto perché il piacere lo gustai subito appena toccatole il collo; per la stessa ragione restarono salve le cinque altre assalite; invece le due M. e P. restarono soffocate perché il piacere tardando a manifestarsi io le stringeva sempre più ed esse morivano. La Motta la spaccai non con la falcetta ma con il rasoio, con cui il giorno prima mi ero sbarbato, provai nello spaccarla un gran piacere; le graffiature che si trovarono sulle cosce non erano prodotte con le unghie ma coi denti, perché io, dopo strozzata, la morsi e le succhiai il sangue ch’era colato, con cui godei moltissimo. […]”
Trattamento penitenziario
Verzeni evita la pena di morte per duplice omicidio premeditato, a causa del voto di uno dei giurati e viene condannato all’ergastolo, da scontare presso il manicomio criminale della Pia Casa della Senavra di Milano e ai lavori forzati a vita. Vi entra il 13 aprile 1872 e viene collocato in una cella insieme al detenuto Giovanni Cavaglia, un muratore che ha massacrato un uomo a colpi di scalpello.
Nel 1873 azzanna ai genitali un infermiere della struttura e viene posto in isolamento per quaranta giorni. Il 23 luglio 1874 tenta il suicidio impiccandosi nella sua cella ma gli infermieri riescono a salvarlo in extremis. Lo stesso anno viene trasferito presso il bagno penale dell’Isola di Santo Stefano, nelle Pontine, una delle prime strutture carcerarie realizzate secondo il modello del "Panopticon" elaborato da Jeremy Bentham.
Adotta, in tale contesto, un comportamento completamente apatico e remissivo e, grazie alla buona condotta, ottiene l’impiego ai servizi domestici. Nella struttura, in quegli anni, opera lo psichiatra Pasquale Penta (1859-1904), cui si deve l’introduzione, nel 1896, dell’Archivio delle psicopatie sessuali.
Nel 1893 pubblica una monografia sulle perversioni sessuali prendendo spunto proprio dal caso di Vincenzo Verzeni. “Dei delitti poi non serba rimorso affatto, come non n’ebbe, subito dopo consumatili […] li racconta come meglio li ricorda, con tutti i particolari più raccapriccianti che gli sovvengono.” Altro dato interessante, Vincenzo “ha quasi completamente perso gl’istinti sessuali […] e nel bagno […] è notoriamente in fama di cinedo!” Dunque, dalla figura “del maschio che uccide per la voluttà del possesso, all’urningo, all’uomo-femmina.”
Il 30 giugno 1889 viene promulgato il nuovo codice penale italiano, il “Codice Zanardelli”. Di impronta marcatamente liberale, abolisce tra l’altro i lavori forzati. Il 20 gennaio del 1890, la Corte d’Appello di Brescia muta la condanna inflitta a Verzeni in trent’anni di reclusione. Grazie a un’amnistia del 1896, lo stesso si vede ulteriormente ridotta la pena. E, sull’Eco di Bergamo del 3-4 dicembre 1902, si legge: “Per l’uscita di Verzeni dall’ergastolo. […] La popolazione di Bottanuco è terrorizzata al pensiero che Vincenzo Verzeni, lo squartatore di donne, ha quasi ormai finita l’espiazione della pena, che dall’ergastolo, fu convertita in 30 anni di reclusione. Il lugubre ricordo delle gesta sanguinose del Verzeni è ancora vivo in Bottanuco e nei paesi circostanti.”
La scarcerazione di Verzeni dovrebbe infatti avvenire nel febbraio 1903, ma si finirà assoggettarlo ad altri cinque anni di domicilio coatto presso l’Isola di Ventotene, non distante dall’Isola di Santo Stefano.
Per liberarlo, la famiglia Verzeni chiede l’assistenza del bergamasco Federico Maironi (1866-1906), deputato socialista e celebre “avvocato dei poveri”. Indeciso se accettare o meno la difesa di Vincenzo, l’11 marzo 1903, Maironi scrive a Lombroso per chiedergli un parere circa la possibilità che l’uomo, una volta libero, torni ad uccidere.
Verzeni viene infine rilasciato e torna a vivere a Bottanuco, in via S. Giorgio n. 60. Muore il 31 dicembre 1918, l’atto di morte n. 87 del comune attribuisce il decesso a “cause naturali”. È stato il primo omicida seriale dell’Italia unita di cui si abbia notizia.
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