Uno dei difetti di Sherlock Holmes – sempre che lo si possa definire un difetto – era la sua estrema reticenza a comunicare i suoi piani per esteso a qualunque altra persona fino all’istante della loro attuazione. In parte ciò era causato senza dubbio dalla sua natura autoritaria, che amava dominare e stupire quelli che lo circondavano. In parte era dovuto anche alla sua cautela professionale, che lo spingeva a non correre mai rischi inutili. Il risultato, in ogni caso, era logorante per coloro che agivano come suoi intermediari e assistenti. Io ne avevo spesso sofferto, ma mai in misura maggiore di quanto mi accadde durante quel viaggio in carrozza, avvolti dalle tenebre. Davanti a noi si profilava il grande intrigo; finalmente stavamo per compiere il nostro ultimo sforzo, eppure Holmes non aveva detto ancora nulla, e io potevo solo immaginare quale sarebbe stato il suo piano d’azione. I miei nervi fremevano di trepidazione quando, infine, il vento freddo sulle nostre facce e i bui spazi vuoti su entrambi i lati della stretta strada mi dissero che eravamo ancora una volta di ritorno nella brughiera. Ogni passo dei cavalli e ogni giro delle ruote ci stava portando più vicini alla nostra suprema avventura.
La nostra conversazione era condizionata dalla presenza del vetturino del calesse preso a nolo, così eravamo costretti a parlare di argomenti futili quando i nostri nervi erano tesi per l’emozione e l’ansia dell’attesa. Fu per me un sollievo, dopo quel forztao riserbo, quando finalmente oltrepassammo la casa di Frankland e capii che ci stavamo avvicinando al Castello e al teatro dell’azione. Non ci facemmo portare fino al portone, ma scendemmo in prossimità del cancello sul viale. La corsa fu pagata e il calesse rimandato immediatamente a Temple Coombe, mentre noi ci avviavamo verso Merripit House.
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