Venezia è il fulcro di questo thriller benché la città non ne sia l’unica location. Per la maggior parte, infatti, la vicenda si svolge tra Milano e il lago Maggiore, è nel capoluogo veneto che la storia hai suoi picchi più emozionanti. Tra gli sceneggiatori spicca infatti il nome di Aldo Lado sicuramente interpellato per dare alla fase veneziana quella magia che ha saputo infondere ai suoi film. Dapprima torniamo a vedere una città invernale, nebbiosa e carica di misteri. Sono le fasi dei primi incontri(non sappiamo quanto casuali) tra il creativo pubblicitario Stefano Augenti e l’inquietante conte Matteo Tiepolo, esponente di una nobiltà decaduta e decadente. Poi, nel finale drammatico soprattutto, la città sembra muoversi in controtendenza rispetto all’intreccio via via più cupo.
Vediamo piazza San marco, i canali, pennellati di colori vividi, di sole, una rarità per il cinema che ha sempre privilegiato un’immagine più tenebrosa della città. La vittima designata di Maurizio Lucidi ha la confezione di un film psicologico, sulla borghesia e il male di vivere come andavano di moda negli anni ’70. È, però, anche un thriller perfetto, un meccanismo angosciante che riprende in modo tutto italiano delitto per delitto, proponendone una versione originale. Forse misconosciuto e non famosissismo trai cultori dell’italian Giallo perché, alla fine di sangue se ne vede poco, è un film da riscoprire proprio per il senso di angoscia e crescente ineluttabilità del destino che riesce a trasmettere. Tomas Milian vi appare magro, privo di barba, baffi, zucchetti, sciarpe e altri orpelli che inseguito ne hanno pesantemente segnato la carriera trasformandolo in una maschera con i personaggi del trucido e del Monnezza. Qui è un copywriter di successo a Milano. Con la modella Katia Chistine realizza persino uno spot dei baci perugina. Eppure le note di una canzone eseguita dallo stesso Milian su musiche di Bacalov che riecheggia versi shakespereani (Morire, dormire, sognare forse, in inglese) già s’intuisce un malessere. Un mistero. Forse un delitto a venire. Stefano, infatti, è un’anima inquieta.
Progetta di vendere la sua parte di azioni della società di pubblicità e fuggire in Venezuela con l’amante modella. Trova, però, a mettergli i bastoni tra le ruote una moglie dispotica, esaurita, sposata per i soldi, che non vuole mollare. Durante un week end a Venezia Stefano incontra più volte un ambiguo personaggio, il conte Matteo Tiepolo. Pierre Clementi, appare in tutta la sua bellezza ambigua e sofferta, probabilmente già minata dalla droga, e intreccia con Stefano un gioco non chiaro. Accompagnato da una fanciulla che sembra una vampira e non dice una parola, ma sembra quasi voler sedurre Stefano e, in effetti, un filo di non troppo sottesa omosessualità serpeggia tra i due.
Ma Tiepolo ha ben altri pensieri per la testa. Di Stefano sa tutto e gli propone, da perfetto sconosciuto, di sopprimere la moglie e lasciargli campo libero. In cambio richiede un altro omicidio, quello del fratello despota che lo tortura fisicamente e psicologicamente. Nobiltà decadente, dicevamo. Stefano che, alla fine è un materialista non ci pensa neanche. Falsifica la firma della moglie nella vendita delle azioni e medita di fuggire con il malloppo. È proprio Matteo a mandare in fumo i suoi piani. Salvo poi apparirgli come un salvatore. Tesse intorno a lui una tela creandogli un alibi con una sconosciuta e al tempo stesso elaborando una trappola che lo renderà colpevole se rivelata dell’assassinio della moglie. A questo provvede lo stesso Matteo con una calza di seta. Stefano scoperto nei suoi maneggi finanziari, è il primo sospettato ma niente lo accusa. E niente lo scagiona.
In un crescendo di provocazioni e angosce Stefano si vede costretto ad acconsentire alla folle richiesta di Matteo di uccidere il fratello di lui, dal tetto di un campanile attraverso un vetro con un fucile di precisione. Amarissima beffa la scoperta finale che il fratello di Matteo non esiste. Il conte Tiepolo, annoiato dalla vita, ha progettato la sua stessa morte costringendo quell’amico al quale dice di essere affezionato come un fratello ad ucciderlo e restare unico colpevole per la giustizia degli uomini di entrambi i delitti.
Diretto con mano sicura e ottimamente recitato la vittima designata si muove tra vari generi senza confonderli. Alla fine prevale il nero della tradizione del romanzo originale e che ispirò anche sconosciuti in treno. Qui, però, emerge un ritratto dell’Italia di quegli anni, tra tradimenti, male di vivere, ville, lusso e incapacità di accettarsi per quello che si è. Da rivedere per prendere appunti.
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