Prima di tutto qualche dato sulla leggenda del fantasma che ha ispirato negli anni diverse opere, alcune molto difformi dalle altre, e poi il romanzo di Arthur Bernéde (1871-1937) che ideò un vero e proprio feuilleton negli anni ’20 del secolo scorso con l’idea di far concorrenza a Fantômas, ad Arsenio Lupin e al Fantasma dell’Opera. Credo che sia nota la mia passione per questi feuilleton che spesso ho incrociato con avventure delle Brigate del Tigre vagamente imparentate con la serie del Professionista.Una ricerca mi ha portato all’origine del mito. Belphegor (così la versione francese italianizzata in Belfagor) era una divinità pagana antichissima. Nello sceneggiato si parla di un dio caldeo dell’inganno e del tradimento ma nella sua iconografia è rappresentato con fattezze egizie (e anche riluce in maniera un po’ ridicola di irradiazioni del metallo di Paracelso, nel filo di trama che forse resta il meno interessante e alla fine non del tutto sviluppato nello sceneggiato) l’origine sembra comunque quella del dio Baal, che poi era babilonese e trovava nella divinità Ba’al Peor signore di un sito in Palestina che richiamava pratiche e adoratori di culti sanguinari e malefici. Belzebù, alla fine, con vaghi collegamenti con Seth, dio egizio adottato dalla mitologia howardiana del dio dei serpenti. Pare che Dio stesso avesse imposto a Mosè di distruggere il regno di Peor, città di Ba’al, per estirpare il male dalla terra. Da qui partirebbero infinite strade che conducono al fantastico, al magico, al filone esorcistico alla Blatty perfino.La storia di Bernéde però attinge solo trasversalmente a tutto ciò, chiama in causa i Rosa Croce, l’alchimista Paracelso ma, se vogliamo, intesse una trama dove il disegno criminale non ha nulla di realmente sovrannaturale. Boris Williams è quasi una trasposizione di Alistair Crawley ma spara, strangola materialmente le sue vittime. Sebbene faccia ricorso a misteriosi filtri d’erbe magiche e all’ipnosi, usa macchine elettroniche e assolda criminali da strada. Copre con una cortina di fumo la sua folle personalità criminale ingannando tutto e tutti. La vera chiave di lettura dello sceneggiato (che rispetto al libro appare piuttosto differente e inserisce tematiche legate tipicamente agli anni ’60, non ultima l’ambiguità affascinante del personaggio di Luciana, interpretata da Juliette Gréco) sta nelle prime scene.          

La storia si apre con una panoramica del mercato delle pulci di Parigi dove lo studente André Bellegarde (subito identificato come un benestante studente universitario, belloccio e anticonformista) s’imbatte in un curioso vecchietto che colleziona ritagli di giornali in scatole di metallo saldate. Precauzione che il vegliardo (che sembra un po’ uscito da un fumetto di Tintin come in realtà tutta questa sequenza iniziale) ritiene necessaria per preservare i suoi tesori da un’eventuale guerra atomica, altra ossessione tipica degli anni ’60. Bellegarde scopre così un percorso fatto di coincidenze, di stranezze, di misteri che, pur citati dalla stampa si perdono in un mare di notizie e non trovano riscontro nella Scienza “seria”, semplicemente perché non possono essere spiegate.

Quella stessa notte il guardiano Gautrais (detto Glu-Glu per il vizio del bere) s’imbatte nel fantasma che, preceduto da un misterioso bambino dai tratti mediorientali, lo guida sino alla statua di Belfagor. Sulle prima nessuno crede a Glu-Glu ma, poche notti dopo il fantasma riappare e uccide il capo guardiano scatenando l’ossessione del fantasma sui tabloid parigini. Quella stessa notte il vecchio collezionista di misteri muore. Ce n’è quanto basta per allontanare Bellegarde dagli studi e spingerlo così a ficcanasare nel museo.

«Non esistono le coincidenze», diceva il defunto vecchietto. E neanche l’incrocio tra Bellegarde e la graziosissima Colette può dirsi tale. Insieme battibeccano e restano chiusi nel museo. Si ritrovano di fronte al fantasma che, dopo aver slogato un polso all’ardimentoso giovanotto svanisce. Qui scopriamo che Colette è l’amata figlia del commissario Menardier (René Dary), una sorta di Maigret vedovo (ma con una compagna segreta che scopriremo verso il finale).

Qui al mistero vero e proprio si aggiunge una trama sentimentale tipica di quegli anni. André e Colette sono programmaticamente destinati a convolare a giuste nozze, sono gli eroi tipici della gioventù dell’epoca. Carini ma ribelli, “regolari” nell’aspetto ma tratteggiati con i loro punti oscuri. Soprattutto invischiati in una fitta trama amorosa che vede (altra coincidenza che tale non è) irrompere Luciana, più matura bellezza che strega il giovane e, con le opportune censure dell’epoca, lo seduce carnalmente restandone a suo tempo ammaliata. Nel contesto s’inseriscono anche l’ex amante di Luciana che prima fronteggia a pugni André poi ne diventa amico rivelandogli la presenza di Williams che sembra dominare Luciana con oscure fascinazioni e poi arriva addirittura a implorare Colette di distogliere il giovane dalla sua amante che di lui proprio non ne vuol più sapere. S’inserisce in questo complesso quadro sentimentale che un po’ allontana l’attenzione dal fantasma anche lo strano rapporto che lega Menardier alla vecchia nobildonna Hodwin che ravvede in lui un vecchio amore e si rivela madre non riconosciuta dello stesso Boris.