Era il 1964 quando John D. MacDonald creò il suo personaggio dell’investigatore Travis McGee, raccontando ben tre sue avventure nello stesso anno: A Purple Place for Dying era una di queste. Arrivato subito in Italia nella celebre serie “Gialli Garzanti” (n. 36), da quel 1965 il romanzo è letteralmente scomparso: ora finalmente I Classici del Giallo Mondadori (n. 1331) riportano in edicola Un posto per morire (A Purple Place for Dying, 1964), la terza avventura del personaggio.
Nel corso della sua vita MacDonald scriverà più di venti romanzi con protagonista McGee: è questa un’ottima occasione per riscoprire il suo investigatore, che nel 1970 arriva anche al cinema con il film Grande caldo per il racket della droga (Darker Than Amber) di Robert Clouse.
Dalla quarta di copertina:
Travis McGee non accetta mai casi troppo facili. Mezzo investigatore e mezzo avventuriero, vive a bordo di una barca e non ama lavorare. Perciò, quando è costretto a farlo per mancanza di soldi, che almeno ne valga la pena. Questa volta il cliente è Mona Yeoman, moglie di un ricco uomo d’affari. La donna ha una relazione con un professore squattrinato, e vuole che Travis la aiuti a recuperare la sua dote dalle grinfie del marito per andarsene a fare la bella vita con l’amante. Un progetto senza grande avvenire, dato che le sparano mentre sta ancora parlando con lui. Il problema è che il suo cadavere poco dopo scompare, qualcuno l’ha vista imbarcarsi con un uomo su un volo per El Paso, e in più la polizia si mette in testa che McGee non la racconti giusta... Che ne dici, Travis, è un caso abbastanza complicato per te?
Ecco l’incipit:
Imboccò la svolta a velocità troppo sostenuta, e la strada, per la verità, non valeva gran che. Superò la curva slittando sulla ghiaia, con uno strapiombo sulla sinistra da far paura, ed ecco che dove avrebbe dovuto esserci la strada le si parò davanti un grosso masso franato dall’alto. Si buttò sul freno, lo slittamento si trasformò in un brusco sbandamento di traverso, e io mi raggomitolai su me stesso, convinto che la Alpine bianca si ribaltasse e precipitasse. Invece, la macchina proseguì sempre sbandando fino al masso, fermandosi qualche centimetro prima dell’urto e con un buon metro di margine tra le ruote posteriori e lo strapiombo.
— Che maledetto contrattempo! — commentò Mona Yeoman.
La macchina, raffreddandosi, faceva udire ticchettii metallici. Un uccello chiacchierone se la rideva di noi. Una lucertola fuggì, nascondendosi dietro la frana.
— Fine della corsa?
— Santo cielo, no! Da qui possiamo proseguire a piedi. C’è ancora un chilometro, forse meno. È un pezzo che non vengo quassù.
— E le mie cose?
— Non mi è sembrato che aveste molto bagaglio. Vi consiglierei di portare tutto con voi, signor McGee. Forse vi riuscirà di spostare il masso quel tanto necessario per poter passare con la jeep. Oppure posso mandare io degli uomini, per sgomberare la strada.
— Se dobbiamo tentare di agire con la massima discrezione, sarà meglio che provi a farlo da solo.
— Sì, mi sembra giusto.
— Sempre che io decida di aiutarvi, signora Yeoman.
Mi guardò. I suoi occhi erano azzurri come uova di pettirosso, e altrettanto inespressivi. — Siete arrivato fin qua, no? Penso che ormai andrete fino in fondo.
Scaricai la valigia dalla vetturetta sportiva, poi ci accingemmo a scavalcare il masso. La frana era recente, lo si capiva dai contorni taglienti del macigno. Non mi dispiaceva affatto dover continuare a piedi. La strada era ripida e le svolte offrivano splendidi colpi d’occhio. Mona Yeoman era venuta a prendermi, a mezzogiorno, a un aeroporto distante una settantina di chilometri, parecchio fuori mano rispetto alla località dove lei risiedeva. Aveva detto di avere un posticino dove poteva alloggiarmi, un piccolo rifugio nascosto, e che avremmo parlato di tutto una volta arrivati là. Fin dal primo incontro, avevo cercato di capire che tipo fosse.
Sembrava fuori posto sia in quel rozzo scenario campagnolo, sia nel genere di panni che indossava. Era una biondona sulla trentina, dal corpo maturo. Molto disinvolta e sicura di sé, si corazzava dietro una lieve arroganza. Mi sembrava che, come sfondo, le si addicesse molto più il passeggio elegante del sabato pomeriggio tra Park Avenue e la Quinta Strada, un cappellino bizzarro in testa e un barboncino argenteo al guinzaglio.
Invece, arrancava su per la strada ghiaiosa con stivaloni impunturati, una giacca di ruvido tweed, calzoni di gabardine e cappellone alla foggia dei cowboy. Sebbene fossimo in alto, non c’era vento, e il sole rendeva quella scarpinata una bella faticaccia. Mi fermai, posai la valigia e mi sfilai la giacca.
— Buona idea — approvò lei, e mi imitò, gettandosi poi la giacca in spalla. Riprese a camminare, con l’aria di chi è destinato ad avanzare in testa, col resto del mondo che segue in fila indiana. Aveva la vita sottile e teneva la schiena molto rigida. I calzoni chiari, dello stesso colore del cappello ma in una tonalità più calda, la fasciavano come un guanto. Sono un esperto nel decifrare un carattere femminile da poppa. Lei era altezzosa, duttile, ricca di temperamento e inavvicinabile. Doveva considerare ogni segno del suo favore un evento tale da far tremare la terra, da celebrare con vino raro, incenso e lenzuola di seta. E aveva l’aria di essere in grado di mantenersi all’altezza di se stessa.
John D. MacDonald (1916-1986), americano, laureato a Harvard, si è dedicato molto presto alla narrativa di genere. Le sue storie, pubblicate sulle riviste pulp, spaziano dal poliziesco alla fantascienza e al western. Tra i giallisti più quotati negli anni Sessanta e Settanta, si è aggiudicato numerosi riconoscimenti, come il Grand Prix de Littérature Policière nel 1964 e il Grand Master Award nel 1972. Il suo personaggio più noto e originale, il detective Travis McGee, ha influenzato l’opera di molti scrittori.
Un posto per morire di John D. MacDonald (I Classici del Giallo Mondadori n. 1331), 182 pagine, euro 4,90 - Traduzione di Hilia Brinis
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