Due passi con Giulio Leoni tra le righe le pieghe e le pagine di un genere oggi sempre più frequentato, una chiacchierata in libertà con uno scrittore già affermato, per poter spiegare agli autori esordienti quali sono gli ostacoli e le difficoltà del mestiere dello scrittore e anche per metterli in condizione di individuare mezzi e strumenti più adatti per affrontare l'impresa.
Innanzitutto grazie per aver accettato di sottoporti a questo esperimento. Ora, immagina di avere davanti a te un autore esordiente, qualcuno che, insomma, ha bisogno di consigli perché solo ora si sta cimentando con oneri e onori di questa attività, a cavallo tra passione e professione. E partiamo proprio da qui: la scrittura per te è più un lavoro o una passione trascinante?
È un lavoro, ma talmente faticoso e non sempre ripagato da soddisfazioni, che deve essere necessariamente sostenuto da una forte passione. Attenzione però, tutto tranne la passione di “sentirsi scrittori”. Sentirsi scrittori, se mai ci si arriva nella vita, è il punto d’arrivo, mai di partenza. Come per tutte le espressioni artistiche, anche la scrittura deve trovare anzitutto in sé la propria ragion d’essere. Questo naturalmente non vuol dire che si scriva per se stessi, per i posteri ecc. Si scrive sempre per qualcuno, fosse anche soltanto uno solo. E sono solo gli altri, fosse anche uno solo, a dirti se la meta è raggiunta o no. Le motivazioni che portano a farlo sono le più svariate, e tutte possono essere valide tranne una: intendere la scrittura come una sorta di autoanalisi, un modo per “tirar fuori” quell’essere eccezionale che si cela dentro di noi e che per qualche motivo gli altri non riescono a vedere. Questo è un vicolo cieco, che non porta da nessuna parte, al massimo a qualche bella pagina di diario. Per raccontare agli altri come siamo c’è Facebook, inutile faticare tanto.
Come e perché e soprattutto “quando” hai deciso di cimentarti con la scrittura e da dove esattamente è cominciato questo percorso? E da dove secondo te dovrebbe cominciare un esordiente?
La scrittura comincia sempre dalla lettura. Ci si innamora di un certo tipo di storie, e a un certo punto non se ne trovano più abbastanza, si ha la sensazione che manchi qualcosa: allora comincia a sorgere l’idea di aggiungerne noi al mucchio. Si comincia dunque sempre dalla lettura, e prima e più si legge, prima e più viene voglia di scrivere. Ma il punto delicato è: “quali” letture? E anche, “quando”? La lettura come tutti gli stimoli complessi, che siano sensoriali o intellettuali, costruisce la nostra visione del mondo per aggiunte e sottrazioni, ma ha i suoi tempi, legati al ciclo evolutivo. “L’isola del tesoro” ha un impatto diversissimo sul nostro immaginario a 10 anni, a 18 o a 25. Leggere Kafka a 16 anni ci avvia a una successiva interpretazione del mondo complessa, angustiata ma anche problematica. Farlo a 50 è solo un’esperienza intellettuale, intensa quanto si vuole ma che difficilmente modificherà una Weltanschauung ormai consolidata. Il fascino ma anche il dramma della scrittura sta ne fatto che quando si comincia, in realtà si è già cominciato dieci anni prima. Io posso scrivere un romanzo di fantascienza a 20 anni soltanto se a 10 ho già letto “Dalla terra alla Luna” e a 15 Bradbury, Heinlein, Asimov ecc. Ma che succede se non l’ho fatto? Nella maggior parte dei casi non c’è più niente da fare. Si può tentare una terapia d’urto, costruendosi in fretta un bagaglio base di due-trecento opere fondamentali nel genere scelto (facendosi magari aiutare da qualcuno, e qui forse una buona scuola di scrittura può avere qualche utilità), stando però attenti a non affastellare materiale a caso, ma rispettando una elementare gerarchia di valore. Mai affidarsi al supplemento libri di un quotidiano: è perfettamente inutile conoscere a memoria l’opera omnia di Paulo Coelho se poi si ignorano Borges o Marquez (mi è capitato con un mio alunno). O leggere Moravia ma non Tolstoi, Pasolini ma non Manzoni, l’ultimo Strega ma non Joyce.
È vero che, quando si decide di scrivere, la scelta forse più drammatica è quella di scegliere o privilegiare un determinato stile tra i tanti possibili, decidere insomma in quale marcia intraprendere questa nuova avventura, a quale registro narrativo dare la preferenza?
Certo, ma non è una scelta drammatica. Anzi, non è nemmeno una scelta. Per quello che dicevo, la scrittura nasce sempre dall’amore per un certo tipo di scritture. Per cui la scelta di un genere o anche l’adozione di uno stile viene da sé. Se quando entri in una libreria l’occhio ti corre d’istinto allo scaffale della fantascienza, perché dovresti voler scrivere gialli? E se ti commuovono “Romeo e Giulietta” e “Via col vento”, perché intestardirsi a raccontare di mafia e camorra? Sarebbe solo una sofferenza, per te e probabilmente per il tuo lettore. E se sul comodino hai un romanzo di 007 e non uno di Calvino, ci sono dubbi sullo stile che preferisci?
Anche perché in fondo ci può anche piacere, come lettori, un determinato stile o un determinato autore, ma non è detto che sia cosa saggia per noi, come scrittori, emulare proprio quello. Potrebbe essere meglio, forse, utilizzare lo stile che più ci si confà e che maggiormente ci somiglia. O quello, semplicemente, col quale siamo in maggiore confidenza e che abbiamo maggiori probabilità di realizzare al meglio.
No. Se un autore ti piace, significa che in qualche maniera interagisce con la tua natura, la tua visione del mondo ecc. Non ha senso dire: X è secondo me il più grande, però io mi ispiro a Y per enne motivi. Se non cerchi almeno di emulare quello che ti appassiona, è già finito lo scopo di scrivere. Lo stile è in fondo habitus, abito.
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