Abbiamo letto da qualche parte che la serie dell’87° distretto di Ed McBain deve essere affrontata, e giudicata, come un solo lunghissimo romanzo. Se prendiamo per buona quest’affermazione (che in parte condividiamo), allora ognuno degli oltre cinquanta titoli che completano la prolifica serie deve essere considerato come un capitolo, un “momento” di una storia senza soluzione di continuità.
Fasi di vita, quindi, istantanee quasi, di un gruppo di persone, di uno spaccato di città, della società. Ogni capitolo potrebbe perciò rappresentare non solo una vicenda autoconclusiva, ma un passaggio a uno stato differente. Maturazione, crescita, trasformazione. Analisi, soprattutto. Perché se pretendiamo di “capire” il tutto in una sola volta, di sicuro non troveremo mai i perché di quanto ci circonda. Allora possiamo seguire un percorso guidato e soffermarci ogni volta a puntare lo sguardo su un determinato “stato”, e prenderci tutto il tempo necessario per riflettere. E trovare, ogni tanto, se possibile, una risposta.
Allora forse è vero, la saga dell’87° distretto assume una rilevanza differente se la si affronta nel suo insieme, non necessariamente con ordine, ma con decisione, sì. Perché se è indubbio che l’autore ci porta in strada, accanto ai suoi uomini, nelle loro case, è anche vero che tutto assieme non può di certo essere detto.
E allora torniamo ai capitoli di cui parlavamo prima. Fasi, momenti, spaccati di un qualcosa, che pure a volerne parlare, sembra davvero troppo grande.
Ed McBain è tornato spesso a parlare dei suoi romanzi, a spiegarne la genesi, a volte anche solo per farci capire il ruolo di un personaggio, di una scelta particolare nella trama. Già, perché capita che nelle storie che racconta metta tanta di quella vita che un lettore potrebbe pure pensare che sia troppo. I libri sono svago, evasione. I protagonisti sono eroi, sono al vertice di una piramide, lassù in alto. Quando soffrono lo fanno in modo diverso da noi, i personaggi.
Non nei romanzi dell’87° distretto. Perché Steve Carella, Meyer Meyer e gli altri della banda sono uomini come noi e l’unica cosa che li rende speciali è il fatto di essere famosi in tutto il mondo. Ma loro, dopotutto, non lo sanno. Loro conoscono solo il crimine e la vita. E sembra già tanto da riempire giornate intere. Non è un caso che l’autore abbia passato cinquant’anni a raccontare le loro vicende.
E siccome abbiamo detto che in questi romanzi succede quello che potrebbe accadere nella vita di tutti i giorni, ecco che in un poliziesco avviene l’impensabile: un criminale più furbo di chi deve investigare.
Nasce così il personaggio del Sordo. L’ha detto proprio McBain spiegando l’esigenza di inserire un criminale di questo tipo nella serie: fare in modo che gli investigatori risultino battibili, stupidi addirittura, di fronte a un nemico troppo astuto. Sentimento che troveremo anche in altre situazioni, magari meno accentuato, ma che ci dona quel realismo che l’autore ha sempre perseguito.
Era il 1960 quando usciva il romanzo Chiamate Frederick 7-8024 (titolo originale: The Heckler), prima rovente sfida tra gli eroi dell’87° distretto e il Sordo (pubblicato nella collana Il Giallo Mondadori, n. 641, nel 1961 e ristampato più volte sia nella collana I Classici che negli Oscar). Il nemico per eccellenza, proprio come Moriarty lo è stato per il geniale Sherlock Holmes di Doyle.
Otto anni dopo, nel 1968, ecco che gli uomini guidati dal tenente Peter Byrnes sono costretti ad ammettere che la partita non è chiusa. Il criminale più beffardo che abbiano mai affrontato non è mai morto nel fiume dove hanno creduto di vederlo affogare. È tornato, ed è pronto a lanciare una nuova sfida alla città intera e soprattutto a quel gruppo di investigatori che già una volta hanno provato, tra enormi difficoltà, a fermarlo. Il romanzo in questione è stato tradotto in Italia con il titolo Allarme: arriva la “madama” (titolo originale: Fuzz), e pubblicato naturalmente nella collana Il Giallo Mondadori, n. 1071, nel 1969.
E proprio da questo romanzo prendiamo spunto per proseguire la nostra analisi, approfittando del fatto che è uno dei pochi romanzi della serie a essere stato portato sul grande schermo. Dal romanzo al film, quindi. Vediamo con quale risultato.
La storia inizia tra le pareti verde mela dell’87° distretto, proprio nella sala agenti, come in tante altre occasioni. Solo che questa volta l’ufficio è sottosopra perché tra scrivanie e scaffalature ci sono gli imbianchini. Teli a coprire ogni cosa e gocce di vernice che finiscono ovunque, innervosendo il detective Meyer, spaesato in tutta quella confusione. Il romanzo apre con la solita intrusione dell’autore (tanto cara a McBain e molto meno a tanti manuali di scrittura!), che si affaccia in questo caos e ci presenta la situazione. Ci sta dicendo che è una giornata d’inferno. E che le cose non miglioreranno di certo:
Gente mia, che settimana.
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