Ero entrato in sala con il timore di veder mortificata la mia passione per Holmes e invece ne sono uscito soddisfatto.
Il film di Guy Ritchie è una scommessa, che è necessario apprezzare. Una scommessa che a mio parere il regista ha vinto e che ridotta ai minimi termini è semplice, quasi evidente per chi conosce Holmes su carta stampata e le sue trasposizioni su celluloide: eliminati tutti gli stereotipi, Holmes resta un personaggio apprezzabile? Qualunque Sherlockiano non avrebbe dubbi su questo punto, e penso che allo stesso modo non ne abbia avuti Ritchie.
Come non tutti sanno, ma forse impareranno andando al cinema, gran parte delle immagini che Holmes richiama (dal cappello da cacciatore di cervi, all’odioso “Elementare Watson”) sono frutto di una contaminazione mediatica del personaggio di Arthur Conan Doyle, dovuti alle, comunque apprezzabili, doti di illustratori e attori che hanno dato il loro apporto negli anni alla sua caratterizzazione.
A chi si lamenta di non ritrovare nel film di Ritchie il posato detective di Baker Street, sconsiglio la lettura del Canone, perché non lo troveranno neanche lì, anzi: troveranno un uomo che veniva notato all’università mentre colpiva cadaveri per osservare per quanto tempo dopo la morte si formassero lividi, un uomo che ignora volontariamente come funzioni il sistema solare, abile nella boxe, nella lotta con il bastone e nella scherma. Non citerò ancora il termine bohème, troppo inflazionato per descrivere il personaggio delineato da Ritchie, né dirò l’ovvio notando che il suo Holmes è un uomo d’azione (come potrebbe non esserlo l’uomo che la criminalità di tutta Londra teme): il nuovo adattamento cinematografico ci mostra la vera natura anticonformista ed essenziale, pragmatica, dell’investigatore di Baker Street. Nell’interpretare e dare vita a tutte queste caratteristiche, Robert Downey Jr. non ha fallito, anzi è proprio lui la “conditio sine qua non” per la perfetta riuscita di questo film, un’interpretazione davvero magistrale.
Sono centoventotto minuti ben spesi, anche per l’atmosfera dark che non stona, considerando che lo stesso Arthur Conan Doyle era famoso per essere uno studioso del paranormale, e che questo si ritrova anche nei suoi racconti gialli, da Il Mastino dei Baskerville a Il Vampiro del Sussex.
Riguardo Irene Adler, l’unica pecca potrebbe essere la scena di combattimento che la vede protagonista, ma considerando la caratterizzazione su cui punta Ritchie, è giustificata (e non reiterata, altra cosa che mi ha colpito positivamente). Il rapporto Irene-Sherlock è forse l’unico tocco personale e che si distacca maggiormente dal Canone, ma è una libera interpretazione che non può mancare in ogni apocrifo Holmesiano.
Arriviamo a lui, il fedele Watson. Fedele, ma non zerbino di Holmes. Jude Law rende l’idea dell’ex militare, virile, pratico e il rapporto con Downey Jr. completa regalandoci un’atmosfera che sottintende l’intimità fra i due, senza rimarcarla fino a cancellare l’individualità della spalla. D’altronde, a chi ricerca un Watson più servile e meno scaltro, chiedo di riflettere sul fatto che una personalità del genere avrebbe trovato ben poche affinità con quella di Holmes.
In sostanza, le mie opinioni sono: un film ben riuscito, probabilmente l’adattamento più efficace e in linea con le due epoche in contatto (quella di ambientazione e quella degli spettatori), un cast che ha compreso senza temere l’onere di ridare vita ad un classico della letteratura, e ambientazione e regia che reggono nonostante fosse facile cadere in errore.
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