Se qualcuno me lo avesse chiesto qualche mese fa, non credo che avrei scommesso su un fumettaro quarantenne (Guy Ritchie) che vantava nel suo curriculum uno spot per la Lavazza e un Razzie Award (l’anti-Oscar) come peggior regista del 2002. Invece ho dovuto ricredermi: del resto, come sosterrebbe Sherlock Holmes, il pregiudizio offusca la logica.

Basato sul Canone di Conan Doyle e sulle strip di Lionel Wigram, girato sul set straordinario di una Londra di fine ottocento che è in realtà un immenso cantiere, interpretato magnificamente da Robert Downey Jr. e Jude Law, Sherlock Holmes ha il grande pregio non tanto di far resuscitare il “cattivo” di turno (uno dei vari eventi che accadono nel film) quanto piuttosto di far resuscitare il Nostro Holmes, il quale, già sfuggito una prima volta alle cascate di Reichenbach e successivamente rivissuto in migliaia di racconti e apocrifi, rinasce in questo film con rinnovato vigore e una rinnovata identità.

E’ vero che la sua fisicità è preponderante rispetto alle languide conversazioni in poltrona a cui ci avevano abituati Sidney Paget o Basil Rathbone, ma del resto il vero Holmes (quello del Canone) praticava l’arte marziale del baritsu e non disdegnava mescolarsi alla feccia dei bassifondi dove il muscolo contava più del ragionamento da salotto. Attenzione, però: anche nella scena del k.o. che vede un insolito Holmes a torso nudo e mani nude ritroviamo tutte le

Alessandra Calanchi
Alessandra Calanchi
tappe del ragionamento canonico, sapientemente rese sullo schermo da un ralenti prolettico straordinario che precede il tempo reale dell’azione.

Del resto, come si poteva rendere simpatico Holmes a un pubblico contemporaneo, un pubblico che – almeno in gran parte – ha già conosciuto Indiana Jones, The Illusionist, Il Codice Da Vinci, La Leggenda degli Uomini Straordinari, e naturalmente Dr House? Semplice: creando una ricetta alchemica che prendesse un po’ di qua e un po’ di là, ma lasciasse intatto il fascino, il sarcasmo, lo humour, l’intelligenza sottile del più grande investigatore di tutti i tempi.

Intendiamoci bene: parliamo di cose serie. Ritchie non fa dire mai al suo Holmes “Elementare, Watson”, non gli mette il deerstalker in testa, e non costruisce stereotipi e macchiette. Ritroviamo invece nella sua integrità l’atmosfera di Baker Street, che si materializza non solo in oggetti quali il violino e la pipa, ma nei tradizionali inseguimenti in carrozza e negli ingegnosi travestimenti di Holmes; ritroviamo le crisi fra un caso e l’altro; ritroviamo la Donna; e ritroviamo soprattutto, in background, qualcosa che pochissimi altri registi sono riusciti a cogliere e a rappresentare: quell’incancellabile persistenza del gotico in età vittoriana, quell’angoscia sottile del fin de siècle, quella crisi in cui già versa il cuore del pur potentissimo Impero, e, infine, quello scontro a lungo rimandato fra Scienza e Magia – in poche parole, fra la “Royal Society” che da oltre due secoli si era imposta come l’Accademia delle Scienze nel mondo britannico e la “Society for Psychical Research” (fondata nel 1882) che proprio in quegli anni muoveva i suoi primi passi. Era il periodo in cui le cosiddette “pseudoscienze” (frenologia, mesmerismo, magnetismo animale, parapsicologia…) vedevano la loro occasione di emergere dal mondo d’ombra a cui erano state relegate, e il metodo scientifico rischiava di vacillare sotto i colpi dei fenomeni medianici o paranormali: lo scenario ideale per comprendere quanto la ferrea logica deduttiva di Holmes

contenesse in realtà dentro di sé anche un piccolo germe di questa new age ante-litteram (vedasi l’abduzione holmesiana, ossia quella dose di intuito mescolato all’arte del “tirare a indovinare” che può implicare un lievissimo margine d’errore – e che nel film costa a Holmes un calice di vino in faccia).

Che dire ancora? Nel film vi sono numerose citazioni, ma vorrei soffermarmi su tre in particolare. Il “cattivo” (controllato in realtà dal misterioso Moriarty) si chiama Blackwood e questo, se può passare inosservato al grande pubblico, è un ammiccamento raffinatissimo ai conoscitori dell’età vittoriana e della letteratura popolare del tempo: infatti non solo una delle maggiori scrittrici “sensazionali” si chiamava Ellen Wood, ma una delle riviste più diffuse era il Blackwood Magazine, che pubblicava articoli e racconti di questo genere, che precede di poco la detective fiction tardo-vittoriana e di cui lo scrittore inglese Wilkie Collins – seconda citazione – è il maestro riconosciuto. Quanto a Edgar Allan Poe – terza citazione – non solo scrisse un saggio che si intitolava polemicamente “How to Write a Blackwood Article”, ma è il capostipite indiscusso della crime fiction di ogni tempo e paese. Inoltre è indiscutibilmente suo il corvo che fa da leit motif al film: il grosso uccello nero che simbolicamente spicca il volo ogni volta che un delitto viene consumato può forse ricordare i corvi della Torre di Londra, ma è soprattutto un chiaro e consapevole omaggio al grande protagonista alato della poesia The Raven di Edgar Allan Poe.

Per concludere: un film da non perdere, sia per gli estimatori del Sacro Canone di Arthur Conan  Doyle, sia per i fan di Gregory House. Vedere per credere.