Dopo avere affrontato tempo fa l’argomento delle sfighe dal punto di vista della detective femminile ora lo facciamo da quello maschile. Almeno per par condicio. Diciamo subito che trovare una coppia di sposi più o meno felice (essendo lui un piedipiatti o un investigatore privato) è come far passare il classico cammello dalla classica cruna dell’ago, o come trovare un nostro rappresentante al parlamento che non abbia a che fare con la giustizia (questa battuta mi sa che l’ho già scritta ma non ricordo dove). Così a botta calda mi viene in mente Maigret e Joseph French e aggiungo Colombo che ha sempre la moglie sulla punta della lingua (ma questo può anche essere un segnale negativo). In genere i detective ammogliati hanno gli stessi problemi del loro corrispettivo femminile. Separati, lasciati o divorziati. O un casino del diavolo in casa propria. Non si scappa. Per cui anche con il sacro vincolo del matrimonio si ritrovano, prima o poi, ad essere soli.

Anche perché la condizione del detective è la solitudine. Egli è nato solo e deve rimanere solo. Così starà meglio, direte voi. Mica vero, mica sempre. Prendiamo per esempio Poirot. Vi sembra normale, vi sembra che stia bene uno che ha freddo anche sotto il solleone, preciso, pigolo all’inverosimile, tutto ghettato e impomatato con il bastone sempre fra i piedi? E che dire di Holmes che deve drogarsi? E Philo Vance che vede solo se stesso? E cosa pensare di alcuni detective moderni sempre tristi, pensierosi, con la bazza che gli casca per terra! Via, su, gnamo…

E poi soli. Soli per modo di dire, perché spesso proprio soli non sono. O convivono con un babbo rompiballe o con una mamma magari sorda o hanno fratelli o sorelle con qualche rotella che non funziona. O hanno una fidanzata che fa girare loro gli zibidei.

E la salute? Dove la mettiamo la salute? C’è chi soffre d’insonnia, chi di colite, chi è cieco, chi in carrozzella, chi senza palle (alla lettera) e chi è perfino paraplegico (e ho  il massimo rispetto per loro). E poi quasi tutti fumano come ciminiere, pipa o sigarette a piacere, con inevitabile tosse e scatarramenti vari.

Per compensare qualche mancanza ci si butta sulla cucina, intesa nel senso della goduria quasi sessuale del cibo. E qui ce ne sono diversi. Di tutte le parti del mondo. A partire da Wolfe per andare da Yashim Togalu e poi da Chen Cao o da Pepe Carvalho e Saverio Bonanno. Ma la sfilza è lunga, credetemi.

Oppure, come quelli della hard boyled americana che si stravaccano sulle sedie pericolanti e si buttano, invece, sull’alcool. Meglio una bottiglia di bourbon o di whisky che la seconda metà del cielo. Magari supportata da una bella tirata di sigarette (di quelle che fanno schiantare i polmoni). O, meglio ancora, nostro Signore come per padre Brown e similari. Semmai per molti di questi difetta un po’ il lato economico (eufemismo), ma insomma è pur sempre un male solo.

Quelli dei cosiddetti thriller e noir, poi, sono spesso dei disgraziati maledetti peggio dei delinquenti. Una vita sbandata, scollegata, drogata (anche), spampinata (l’ho coniata io). Magari fin da quando sono nati.

Quelli che vivono quasi normalmente si contano sulla punta delle dita. Montalbano, forse, o Enrico Radeski di Paolo Roversi giovane e libero come un fringuello. Ma nel complesso la loro non è certo una vita da invidiare.

Poveri detective men!

 

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