Quanti apocrifi holmesiani iniziano col ritrovamento di una cassetta piena di documenti, conservata per decenni in una banca o in una soffitta? La vita, si sa, imita l’arte, come scrive Oscar Wilde… Ecco dunque emergere dagli archivi della famiglia Doyle un voluminoso fascio di lettere, dapprima messo sotto chiave per cinquant’anni, in seguito a disaccordi famigliari, poi giunto in eredità alla figlia minore di Doyle, Jean, e passato al
la British Library alla sua morte, nel 1997. Da questo materiale, a lungo sottratto alla curiosità dei lettori, trae origine Arthur Conan Doyle: A Life in Letters, che ripercorre la vita dello scrittore attraverso la sua corrispondenza - in primo luogo con la madre Mary Foley Doyle, cui lo lega un rapporto strettissimo, di affetto, fiducia e complicità, ma anche con altri famigliari e amici.
A curare l’imponente volume sono tre esponenti di spicco del mondo sherlockiano: Jon Lellenberg, Daniel Stashower e Charles Foley, pronipote di Doyle ed esecutore della “Conan Doyle estate”. I tre
illustri personaggi sono membri dei Baker Street Irregulars, come recita
il risvolto di copertina. L’impresa offre agli appassionati un ritratto di Doyle a tutto tondo, poiché il libro traversa la sua esistenza dai giorni del
la scuola ai tristi postumi della prima guerra mondiale, quando lo scrittore - oppresso dalla perdita del figlio Kingsley, del fratello e di altre persone care - dedica ogni sua energia alla causa dello spiritualismo,
il grande placebo attraverso cui una Gran Bretagna in preda al trauma cerca di sanare le ferite interiori.
La cura di questo volume non è stata una passeggiata. Basti pensare che delle oltre mille lettere scritte da Doyle alla madre in più di mezzo secolo ben poche recano una data. I curatori hanno dunque cercato di ristabilire una cronologia attraverso indizi quali la carta usata, l’indirizzo e allusioni a eventi recenti o futuri. Per restituire a queste missive
la continuità di una ‘vita’, i curatori le hanno poi organizzate in sezioni cronologiche, caratterizzate da una certa coerenza tematica, e corredate di introduzioni, note, fotografie e documenti di varia natura. Il risultato è un ‘gabinetto di curiosità’: un assortimento di finestre che si aprono sul
la carriera medica di Doyle, sulla sua vita famigliare (la malattia che conduce alla morte la prima moglie, e la storia d’amore con Jean Leckie, ma anche i rapporti con il cognato William Hornung, l’autore di Raffles), sulla sua produzione letteraria (il campo è vastissimo…), sulle sue imprese belliche (il reportage della guerra anglo-boera) e politiche (
il tentativo di farsi eleggere in Parlamento), e ancora sulla passione sportiva (le partite di calcio, lo sci…) - in breve sui tanti aspetti di una vita che ci appare in queste pagine ricca di sfide e avventure fisiche e intellettuali, caratterizzata da un curioso misto di disciplina e di sfrenata immaginazione.
Una vita che è inoltre all’insegna dell’impegno etico, come mostra
il coinvolgimento di Doyle nel caso di George Edalji, figlio di una donna inglese e di un indiano, divenuto vicario della chiesa anglicana. Accusato di una curiosa serie di crimini: mutilazioni inflitte ad animali non lontano dalla sua abitazione, Edalji viene imprigionato e in seguito liberato, ma poiché lo stigma sociale gli impedisce di esercitare la professione di avvocato, il giovane si rivolge a chiunque possa aiutarlo a dimostrare
la sua innocenza. Sul finire del 1906, Doyle raccoglie la sfida, riconoscendo in Edalji la vittima del pregiudizio razziale, che impedisce alle forze dell’ordine di valutare il caso in modo obiettivo. Le prove raccolte da Doyle nei mesi successivi contribuiscono a discolpare Edalji, cui tuttavia le autorità rifiutano di versare un compenso per i tre anni trascorsi in prigione.
E’ solo uno dei tanti episodi che emergono dal libro. Tuttavia più che i richiami a opere o eventi a noi noti sono i dettagli imprevisti a colpire
il lettore, come i commenti di Doyle sulla società e la letteratura dell’epoca o sullo stesso Shakespeare, allora al centro di una violenta polemica dovuta agli ‘eretici’ che negavano all’attore di Stratford
la paternità di opere come Amleto e Re Lear, attribuendole viceversa a intellettuali e aristocratici del calibro di Francesco Bacone o Edward de Vere, conte di Oxford. Come noto, perfino Freud aderì negli anni venti a queste teorie, ma vediamo cosa scriveva Doyle già nel 1888:
Povero vecchio Shakespeare! Temo che sia finita per lui. Peccato per quei poveri abitanti di Stratford! Peccato anche per quegli Yankee giramondo che sono venuti dall’altro lato del pianeta per posare lo sguardo sulla casa dell’uomo che non ha scritto i suoi drammi! Che gran scompiglio! C’erano già prima molte ragioni per pensare che Bacone fosse il vero autore, ma se il crittogramma, una volta verificato, si dimostrerà autentico, sarà la prova definitiva. (254)
Per comprendere queste parole dobbiamo ricordare che proprio nel 1888 Ignatius Donnelly - con la sua opera Il grande crittogramma - affermò di aver scoperto nei drammi di Shakespeare dei messaggi in codice che ne attribuivano la paternità appunto a Bacone. Inutile dire che il crittogramma non costituì agli occhi del pubblico la prova definitiva che Doyle aspettava… ma l’eresia anti-Shakespeariana (passata alla storia come “Authorship Controversy” o controversia autoriale) non si placò per questo.
Nella sua spontaneità, legata alla natura privata e ‘immediata’ delle lettere, questa ‘vita’ di Doyle costituisce una versione meno control
lata e più trasgressiva del resoconto biografico cui Doyle stesso affidò
la sua fama postuma: Memorie e avventure (1924). Ci si augura che
il volume - già insignito in America dell’Edgar Award per la categoria critica/biografia - venga presto tradotto in italiano, così da offrire ai cultori del ‘giallo’ questo spaccato di vita autoriale, che da un
lato ci mostra la mente di Doyle a confronto con l’ignoto e l’ingiusto, e dall’altro rivela le implicazioni economiche della creatività. Lo mostra bene
il progetto che Doyle coltiva nel 1897 di scrivere una versione teatrale di Holmes. L’impresa (che verrà in seguito realizzata con l’aiuto dell’attore americano William Gillette) è vista dall’autore come un’occasione di guadagno su cui fondare la casa dei suoi sogni:
Penso seriamente a una commedia basata su Sherlock Holmes. Sarebbe senza dubbio un’opera lucrativa, anche se modesta. Venderebbe a tal punto sia in America che nelle colonie, e anche qui. Se funzionasse riuscirei a pagare l’intera casa in un colpo solo. Dovrei farcela in fretta se mi mettessi a lavorare, perché ho in mente la trama, e ho già idea di come trattarla in modo efficace. (389)
In conclusione, uno dei principali meriti di questo libro è quello di inserire l’opera di Doyle in una rete di relazioni, mostrandoci la scrittura nel suo farsi e nel suo contesto quotidiano di problemi professionali e famigliari, di rapporti editoriali, di attese e delusioni - quell’humus di realtà da cui
la scrittura spesso evade e di cui tuttavia si nutre (pensiamo ai racconti di carattere medico da Doyle, ai confini del documentario). L’innata tendenza di Doyle a ‘giocare’ si combina infatti con la lucidità del suo sguardo e dei suoi giudizi, e questa vita vittoriana - contrassegnata da un surplus di energia e attivismo, rivolti tanto all’azione quanto all’immaginazione - ha per noi il valore di una profonda lezione.
Arthur Conan Doyle: A Life in Letters, edited by Jon Lellenberg, Daniel Stashower and Charles Foley, London and New York, Penguin, 2007, pp. 706.
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