Allungò le gambe sulla poltrona di fronte, come era solito fare a casa, e si mise a fumare che sembrava una locomotiva. Sapevo le sue abitudini: il suo cervello lavorava disperatamente a riordinare i pensieri che vi galoppavano vorticosamente.– Dobbiamo prevenire, e subito! – esclamò ad un tratto.Non capivo che cosa ci fosse da prevenire e come si potesse farlo, ma Holmes si alzò, uscì nel corridoio e bussò alla porta dello scompartimento occupato dalla signora.

– Entrate – disse la voce argentina della sconosciuta.

– Vi prego di scusare la mia audacia – disse il mio amico in francese e con quella cortesia naturale grazie alla quale si trovava a suo agio anche nei circoli aristocratici – ma si tratta di una faccenda importante…

– Una faccenda importante? E che mi concerne?.

– Sì. Credo siate contessa e portiate nella vostra sacca da viaggio delle cose molto preziose…

– Come lo sapete?

– Sono Sherlock Holmes!

La signora emise un grido di meraviglia e nel contempo di gioia. Aveva udito parlare molto dell’illustre personaggio, aveva letto la traduzione francese dei miei racconti e aveva tanto desiderato di conoscerne il protagonista!

Sherlock Holmes era raggiante nell’apprendere come la sua fama, varcati i confini della patria, risuonasse pure nell’impero dello zar.

– Abbiate dunque piena fiducia in me. Prima di giungere a Pietroburgo, il treno si ferma a Zarskoie Selo. Quando vi saremo arrivati, scenderemo, voi, io e il mio amico Watson, e quindi state tranquilla…

– Perché volete scendere?

– Ci recheremo a Pietroburgo, ma in carrozza.

– D’accordo, ma perché?

– Non mi chiedete altro… e ascoltate il mio consiglio.

La signora si mise a ridere. Pareva tuttavia che l’accento solenne di Sherlock Holmes l’avesse scossa. Aderì alla proposta.

– Sarà una gita divertente – disse – Voialtri inglesi siete pazzerelli.

– Poveretta, – mi sussurrò Holmes mentre tirava giù dalla rete la valigia – non immagina nemmeno la spada di Damocle che pende sul suo capo… e sul nostro.

A Zarskoie Selo scendemmo e ci recammo a colazione in una modesta trattoria. A dire il vero non ci capivo un’acca, ma se Sherlock Holmes riteneva utile farci interrompere il viaggio e se annusava un pericolo, voleva dire che aveva le sue buone ragioni e che il pericolo era davvero imminente. Mentre mangiavamo, il mio amico mandò un uomo all’ufficio della posta, chiedendo gli si inviasse subito una carrozza. L’uomo ritorno: l’ufficio non aveva veicoli disponibili.

Sherlock Holmes non parve meravigliato; sembrava avesse previsto questa risposta. Strizzò gli occhi e disse:

– Trovate una carrozza a qualunque costo. Vi darò cinque sterline se ci portate a Pietroburgo.

La contessa batté le mani: – Cinque sterline, quasi cinquanta rubli per una scarrozzata di venti chilometri; ah, solo gli inglesi sono così generosi!

Poco dopo una tradizionale – troika – russa si fermava davanti alla trattoria. Vi prendemmo posto e il cocchiere sferzò i cavalli per partire veloci come il vento.

– Volete scendere al vostro palazzo? – chiese alla contessa Sherlock Holmes.

– No, preferisco un albergo.

– Un albergo?

– Sì.

– Forse è meglio. E, ditemi, vi sono capitate altre volte avventure simili a questa?

– Parecchie volte.

– E la polizia?

– La polizia non ha motivo di immischiarsi.

– Forse non sa nulla.

– Forse…–.

La contessa tacque come se quel discorso non le tornasse gradito. Lo sguardo di Sherlock Holmes intanto non si staccava dal vetturino. Ad un trattò l’uomo sferzò i cavalli e invece di dirigerli verso il ponte li fece andare dritto dritto verso il fiume. Il mio amico balzò in piedi, tirò fuori la rivoltella, afferrò il cocchiere e gli puntò l’arma alla tempia.

– Non uccidermi!– gridò l’altro tremando per lo spavento, gettandosi poi giù da cassetta.

Sherlock Holmes lo sostituì là sopra, afferrò le redini, ci condusse oltre il ponte e via di gran carriera. Il postiglione ci urlò dietro alcune parole che non intendemmo. Avreste dovuto vedere allora il mio illustra amico! La sua persona pareva più alta e più rigida ancora mentre, con il cappello di paglia calcato sugli occhi, guidava la veloce troika russa!

Giungemmo a Pietroburgo. Credevo che la polizia fosse già a conoscenza del caso occorsoci e dovesse ritenerci almeno persone sospettabili di congiura: ma la fama di Sherlock Holmes era così grande che il primo poliziotto nel quale ci imbattemmo acconsentì a prendere in consegna la carrozza. Proseguimmo a piedi. Il mio amicò dispiegò la pianta di Pietroburgo, già studiata a lungo, e senza dover chiedere indicazioni a nessuno ci guidò all’albergo nominato dalla contessa. Non era di prim’ordine, eppure era carissimo. Ci fecero pagare due rubli per del caffellatte.

La contessa prese una camera accanto alla nostra. Dopo esserci lavati e spolverati i vestiti, scendemmo per recarci alla stazione a prendere il baule che doveva essere arrivato con il treno. Ma passando davanti al guardaroba Sherlock Holmes si bloccò e, additandomi un mantello appeso, mi disse:

– Sapere, caro Watson, di chi è quel mantello?

– Non lo so.

– E’ il mantello dell’uomo con la barba rossa che occupava lo scompartimento vicino al nostro. Andate voi alla stazione. Io devo restare qui.

Perdetti parecchio tempo prima di riavere il baule. Quando ritornai all’albergo, Sherlock Holmes mi accompagnò nella nostra camera. Era allegro e si sfregava le mani.

– Adesso – mi disse – tutto è chiaro come la luce del sole.

– Parlate – gli risposi – muoio dall’impazienza.

– Ecco, il mio nemico implacabile, il professor Moriarty, vive e soggiorna a Pietroburgo e tesse intrighi contro di me qui, in Russia, dopo essere stato vergognosamente sconfitto in Inghilterra–.

– Il professor Moriarty è qui?

– Altroché! Giudicate voi. A Zarskoie Selo ho imbucato una lettera al mio indirizzo. Ci credete? La lettera non mi è giunta…

– Davvero?

– Parola mia. Ma non basta. Alcuni minuti fa sono andato nello stanzino del telefono; ho scampanellato a lungo ma la centrale non mi ha risposto. Tutti i miei tentativi sono stati vani…

– Impossibile!

– Eppure è così. Ammetterete che solo alle diaboliche arti di un acerrimo avversario come il professor Moriarty riesce di non far giungere le lettere al loro indirizzo e di turbare la rete telefonica quando uno come me vuole parlare con qualcuno e con urgenza. Siete del mio avviso?

– Certo, il professore è qui – risposi – Ma le vicissitudini della contessa?