Da parecchio tempo Sherlock Holmes era pieno di grattacapi. La polizia non sbrigava più alcuna faccenda senza i suoi consigli o la sua cooperazione. E molte persone gli avevano dato incarico di dipanare le matasse più arruffate del mondo.
Nonostante questa mole di lavoro, era davvero raro che con la sua abilità meravigliosa egli non riuscisse a gettare fasci di luce dove le tenebre parevano essere più fitte e il mistero impenetrabile. Il mio celebre amico lavorava con passione e con sottigliezza d’ingegno impareggiabili, senza pensare al compenso.
Una sera fumavo nella mia camera l’ultima pipa e leggiucchiavo un romanzo. Avevo lavorato tutto il giorno, e adesso ero stanco morto. All’improvviso suonò il campanello. Diedi un’occhiata all’orologio: erano le dieci e tre quarti. Credetti che venissero a chiamarmi al capezzale di qualcuno ammalatosi improvvisamente. La domestica era già andata a dormire, perciò mi recai ad aprire. Immaginate il mio stupore quando sulla soglia vidi Sherlock Holmes.
– Non speravo, mi disse, di trovarvi ancora in piedi.
– Voi qui?
– Siete sorpreso di vedermi capitare qui a quest’ora, non è vero mio caro Watson? Avete ragione. Vi ho strappato al piacere dell’ultima fumata, la cenere sparsa sulla vostra giacca mi dice che fumate sempre la stessa qualità di tabacco, e al piacere ancora maggiore di infilarvi tra le lenzuola. Scusate, posso entrare?
– Certamente…
– Grazie, mi levo il mantello… Ah, ah, vedo che oggi avete avuto molto da fare! Le scarpe sono impolverate, ma non infangate, segno che avete girato in carrozza, e che le visite sono state più numerose del solito, altrimenti sareste andato a piedi… Grazie, ho già cenato. Ma fumerei volentieri.
Gli porsi una pipa. Sedette di fronte a me e fumò per un po’ senza parlare. Questo suo silenzio acuiva la mia curiosità, poiché sapevo che esso preludeva a qualche importante rivelazione.
– Caro Watson, – mi disse infine lanciando nuvole di fumo verso il soffitto della camera – ho bisogno di voi.
– Sapete che sono sempre al vostro servizio.
– Dovreste dedicarmi qualche giorno.
– Lo farò.
– E i vostri ammalati?.
– Spero che il dottor Yackson accetterà di sostituirmi.
– Va bene. Partiremo domani per la Russia.
– Per la Russia?
– Sì, caro Watson. Preparate la valigia, prendete le cose indispensabili, non dimenticate la rivoltella, e partiamo.
Confesso che non avevo mai pensato alla possibilità di recarmi nel Paese della neve perenne e che l’idea di questo viaggio non mi sorrideva. Tuttavia non esitai. Mi sarebbe sembrato di essere un ingrato e un codardo se avessi lasciato che il mio amico partisse da solo, e proprio quando diceva di aver bisogno di me. Non ho il diritto di svelare il segreto che costringeva Sherlock Holmes a recarsi nello sconfinato impero slavo, tanto più che la storia è recente e sono ancora in vita le persone che vi presero parte. Ma posso invece raccontare un episodio di quel viaggio, ancora fresco nella mia memoria.
Poco dopo sedevamo in una carrozza della ferrovia internazionale del Settentrione. Holmes rompeva la noia del tragitto descrivendomi le città e i costumi della Russia con sfoggio di particolari, che dimostravano come il mio amico avesse studiato a fondo il Paese nel quale ci recavamo. Ascoltavo con molto meraviglia, non mi vergogno a dirlo, che le vie di Pietroburgo non sono popolate di orsi bianchi, che i russi non mangiano sapone e non bevono alcol puro ma vodka, e che fra loro vi sono moltissime persone di garbo. Del resto, può essere che Sherlock Holmes si sbagliasse e che i cosacchi – tutti i russi sono cosacchi – si dessero alle orge di acquavite e di sangue solo quando avessero la certezza di non essere visti dagli stranieri. Grazie alla conversazione amena e alle facezie del mio amico, le ore fuggivano via rapide e quasi senza accorgermene ci avvicinavamo a Pietroburgo.
Il treno si fermò dinnanzi a una piccola stazione di campagna. Lo sportello della nostra carrozza si aprì ed entrò una donna giovane e bella, vestita molto elegantemente. Era accompagnata da un uomo che, a giudicare dall’apparenza, doveva essere un gran signore della capitale. La signora aveva una borsa da viaggio con una cerniera finemente lavorata. In fondo alla stazione vidi la carrozza che l’aveva condotta lì, un bellissimo calesse il cui cocchiere indossava una ricca livrea. Notai pure come il servitore che l’aveva aiutata a salire sul treno avesse inciso sui bottoni lo stemma dei conti. La donna doveva essere la moglie del nobile e ritornava nella capitale dopo un breve soggiorno in campagna per il periodo della caccia.
– E soprattutto non perdere la sacca da viaggio! – gridò in francese il conte prima di andarsene.
Sherlock Holmes e io eravamo intanto scesi per sgranchirci un po’ le gambe e ci eravamo avvicinati alla locomotiva. Il mio amico si fermò un secondo e mi disse:
– E’ una macchina Compound, fabbricata a Cokerill, collaudata tre anni fa e riparata nel corso di quest’anno.
– Come lo sapete? – chiesi meravigliato.
– Perbacco! E’ scritto sulla locomotiva. Non ci vuole un gran talento per vederlo!
Difatti aveva ragione. Era facile, a patto di sapere il russo! Sembrava dunque che il mio amico lo capisse benissimo. Io invece non ne decifro nemmeno l’alfabeto, e perciò mi sarei scervellato invano.
Alzai gli occhi e vidi l’aiutante del macchinista traballare all’improvviso, come colto dalla febbre o in procinto di svenire. Il poveretto era pallido pallido; feci un passo verso di lui per chiedergli cosa si sentisse, ma Holmes mi trattenne.
– Rientriamo, – mi disse – altrimenti corriamo il rischio di restare a piedi.
La signora si era seduta nello scompartimento accanto al nostro; nell’altro scompartimento, proprio dietro di noi, vi era un uomo dalla faccia strana e dallo sguardo fosco. Il suo volto era incorniciato da una barbaccia rossa e incolta al pari delle ciocche di capelli che sfuggivano da sotto un berrettone ispido e sudicio. Calzava stivaloni infangati e il suo mantello mostrava la trama a causa dell’uso. Brontolava, aggrottava le ciglia, stringeva i pugni. Lo udii poi dire poche parole al controllore.
– Avete veduto, Watson? – mi chiese sottovoce l’amico quando ci fummo seduti nel nostro scompartimento.
– Quell’uomo?
– Sì, quell’uomo. Ha dato una moneta al controllore.
– Non me ne sono accorto.
– Una moneta da cinquanta copechi–, soggiunse caricando la pipa.
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