Dico la verità. Il Noir non mi è mai rimasto troppo simpatico. Soprattutto quello di certi giallastri moderni dove schizzi di sangue e sperma si trovano dappertutto come se questo, da solo, bastasse a far conseguire la patente di scrittore. Sono stato, invece, sempre attratto da quei gialli falsamente “soft” che, attraverso semplici tocchi e accenni, riescono a creare sensazioni ben più forti di qualsiasi scena da macelleria. D’altra parte, purtroppo, anche il mystery ha il suo bel rovescio della medaglia e non tutti posseggono l’abilità di Anthony Berkeley per tenere in piedi le famose sei diverse soluzioni di Roger Sheringham e dei membri del Circolo del Crimine. I poveri imitatori non fanno altro che cadere in un vuoto e sterile gioco cerebrale che manda in tilt ciò che è rimasto delle famose cellule grigie di poirottiana memoria. E allora mi corre l’obbligo, per una specie di senso di colpa, di rendere un piccolo omaggio al capostipite del noir nostrano. Quello vero, quello nuovo, quello di estremo impatto emotivo. Quello di Scerbanenco.
Giorgio Scerbanenco nasce a Kiev nel 1911 da padre ucraino (fucilato dai “rossi”) e da madre italiana, più precisamente romana. In realtà si chiamava Scerbanenko, ma poi il suo nome si è italianizzato con la c al posto del k. La spiegazione di questo cambiamento ce la racconta lui stesso. A sei mesi viene portato a Roma, a diciotto anni va a Milano. “D’improvviso, appena arrivato a Milano diventai straniero”. Molti gli chiedevano se era russo o comunque slavo. Un tarlo che lo rodeva, che lo faceva sentire diverso. Allora sostituisce la k con la c perché almeno sul nome non ci fossero problemi. La sua vita è complessa. Una personalità burrascosa, mille mestieri, si becca pure la TBC. Al sanatorio di Cuasso una bella scoperta: lo zabaione e unico argomento:le donne. La sola infermiera che deve assistere molti malati diventa una specie di Circe. Poi contabile in una grossa ditta ed infine assunto in redazione alla Rizzoli.
Il fatto più eclatante è che scriveva, scriveva e scriveva. Se ci fosse stata la possibilità di reincarnarsi in un oggetto sono sicuro che sarebbe diventato una macchina da scrivere. Dal 1933 al 1969 non ha fatto altro che picchiettare sui tasti sciorinando una novantina di romanzi e migliaia (esagero?) di racconti da far venire i brividi solo a pensarci. Ultimamente sono stati ritrovati alcuni racconti di guerra subito dati alle stampe ( “Uomini ragno” della Sellerio) e chissà quanti altri ancora aspettano di essere portati alla luce. Dicevo che riesce ad avere un lavoro stabile. Ma è ormai troppo tardi. Si sente già “guastato dentro per sempre”. Non è in armonia con le persone che gli sono vicine e con l’ambiente che lo circonda. Tutti i suoi personaggi, scrive, sono gente modesta che “pensava solo a vivere, oscuramente, e oscuramente soffriva o era felice”. La sua visione della vita rispecchia, dunque, il fondo nero dei suoi libri e viceversa ”Noi rimaniamo sempre gli stessi. Le esperienze della vita, gli insegnamenti delle persone più sagge, ci impolverano un poco, come quando camminiamo per una vecchia strada di campagna, ma basta soffiare un po’ di polvere perché noi ritorniamo tali e quali come eravamo prima di ogni insegnamento”.
Arthur Jelling, il suo primo personaggio, nasce in “Sei giorni di preavviso” del 1940 ed è un archivista della direzione generale della polizia di Boston. Che c’entra Boston? Il regime fascista negli ultimi anni della sua sopravvivenza sta operando una forte censura contro tutte le pubblicazioni che in qualche modo mettono in risalto le zone d’ombra del nostro paese. Gli scrittori sono dunque costretti ad ambientare le loro storie all’estero. Come in questo caso.
Arthur Jelling, dicevo, è un archivista di quaranta anni, timido, riservato, tutto preciso e ordinato, ha pochi amici, ama la solitudine, se ne sta come un ragno tra la polvere degli archivi, risolve i suoi casi e ritorna tranquillo tranquillo, pacioso pacioso, tra le mura domestiche insieme alla moglie e al figlio. Ogni tanto gioca a scacchi e questo me lo rende un po’ più simpatico.
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