Ciò era successo anche a un predecessore di Lupin, quel Raffles di W.R. Hornung tanto inglese quanto l’eroe di Leblanc è francese. Accade pure al Raffles apocrifo dei racconti a fascicoli, chiamato inizialmente Laffres (sempre per evitare di pagare diritti) e quindi divenuto meglio noto, almeno in Italia, come Lord Lister. Accadrà successivamente ai tardi epigoni di Raffles, tipo Il Santo di Leslie Charteris o Il Barone di Anthony Morton. Persino il tetro Diabolik italiano delle sorelle Giussani, dopo due anni di efferatezza (il modello dichiarato è Fantômas), finirà con l’uccidere sì, però solo altri criminali peggiori di lui. Forse è legge legata all’età anagrafica degli autori l’iniziare dalla trasgressione più radicale per approdare al conformismo, o comunque al compromesso.Sta di fatto che l’Arsène Lupin divenuto proverbiale presso il grande pubblico resta, malgrado le buone intenzioni di Maurice Leblanc, quello che ruba, e lo fa con eleganza (vale anche per Rocambole, eleganza a parte). Lo storico dell’anarchismo Alain Sergent asserì che il personaggio era modellato su quello di Alexandre Marius Jacob, anarchico “illegalista” operante in Francia ai primi del ‘900, capo della banda dei Travailleurs de la Nuit. Antoinette Peské e Pierre Marty, nel loro saggio Les Terribles (1951) dedicato a Maurice Leblanc, ad Allain e Souvestre e a Gaston Leroux, contestarono subito quella derivazione. La prima apparizione di Lupin, nel racconto L’arrestation d’Arsène Lupin, è del 1904, sulla rivista Je sais tout. Il processo a Jacob, che rivelerà al pubblico il numero incredibilmente elevato dei suoi furti, commessi soprattutto a danno di chiese e di ville borghesi, è dell’anno successivo.L’argomentazione è meno solida di quanto appaia a prima vista. Prima ancora che il nome di Jacob fosse noto, i suoi furti più audaci erano stati raccontati in dettaglio dalla stampa francese, e soprattutto dai settimanali illustrati. C’erano poi altri “illegalisti” attivi a quel tempo, e fin dal 1903 possedevano persino un organo ufficioso, L’Ennemi du peuple (sostituito nella funzione, dal 1905, dal settimanale L’Anarchie di Albert Libertad). Un collaboratore de L’Ennemi du peuple, lo scrittore libertario Georges Darien, fin dal 1897 aveva dato alle stampe un romanzo, Le Voleur, in cui il furto era presentato come una forma della lotta di classe. Non occorreva attendere la rivelazione del nome di Jacob per sapere che erano all’opera, nella Francia dei primi del ‘900, ladri guidati non dall’avidità, bensì da un loro senso di giustizia. Un uomo attento all’attualità come Maurice Leblanc non poteva non accorgersene.Le ragioni che mi inducono a dubitare di una filiazione diretta Jacob-Lupin sono altre. Anzitutto Jacob e compagni non erano affatto “gentiluomini”. E’ vero che il ladro anarchico, penetrato nella casa di Octave Mirbeau, rinunciò a rubare e lasciò un biglietto in cui rendeva omaggio allo scrittore. Però se, nel corso di altri furti, non uccise direttamente fu per puro caso, e i suoi Travailleurs de la Nuit abbatterono almeno un paio di poliziotti.Ma, soprattutto, i moventi di Arsène Lupin appaiono ben lontani dall’anarchismo, e ciò fin dalla sua prima apparizione. E’ vero, ogni tanto pronuncia qualche frase anti-borghese (come in Les Dents du tigre, 1921), e nello stesso La contessa di Cagliostro ha parole di disprezzo quasi classista verso i notabili che pretendono di giudicare e di uccidere la sua amata. E’ figlio di un povero – Théophraste Lupin, truffatore internazionale e professore di savate, quella sorta di karate francese portato a Marsiglia dai marinai che percorrono le rotte d’Oriente – e di una dama decaduta, una D’Andrésy. Ogni tanto accenna all’umiltà delle proprie origini, soprattutto in La contessa di Cagliostro. Ma lo fa con un senso palpabile di vergogna.Si sa che Maurice Leblanc fu un convinto anticlericale, che parteggiò per Dreyfus in anni nei quali non conveniva farlo; ma se era un democratico, di certo non era un socialista. Lo stesso vale per Lupin. E’ vero che questi non scende direttamente in campo contro anarchici e bolscevichi, come fanno negli stessi anni suo “cugino” Lord Lister, lo Zigomar di Léon Sazie (un criminale spietato su cui Allain e Souvestre modelleranno, un anno dopo la sua apparizione nel 1910, il loro Fantômas), i Quattro Giusti di Edgar Wallace, il Chéri Bibi di Gaston Leroux. Però, in Les trois crimes d’Arsène Lupin, il gentiluomo scassinatore dà prova di acceso nazionalismo, e decide di arruolarsi nella Legione straniera per difendere la patria, probabilmente in qualche impresa coloniale. Non è precisamente una scelta “sovversiva”.Eppure i già citati biografi di Leblanc, Peské e Marty, pur negando la filiazione da Jacob, hanno insistito sulla funzione di “giustiziere sociale” di Lupin, rintracciabile, secondo loro, nell’identità dei derubati: uomini d’affari, politici corrotti, gentiluomini oziosi, ecc., per non parlare del continuo sbertucciamento delle forze dell’ordine. Qui, forse, Antoinette Peské, figlia del pittore Jean Peské, disegnatrice, poetessa, esponente dell’intellettualità inquieta della Francia del secondo dopoguerra, ha voluto fare aderire Lupin (e Leblanc stesso, da lei definito “di sinistra”) ai propri ideali. Operazione forzata da diversi punti di vista.
Anzitutto il più evidente. La giustizia che Lupin ristabilisce – a volte come ladro, a volte come vendicatore – si esercita, come ai tempi d’oro del feuilleton, a favore di singole vittime di una prepotenza, per lo più ragazze infelici che qualcuno ha spossessato. E’ insomma, ed è lo stesso Lupin a dircelo in più di un romanzo, la giustizia per “vedove e orfani”, senza alcuna connotazione classista.
Poi c’è da dire che, quando ancora pratica il furto in grande stile, Lupin non ha in mente finalità redistributive. E nemmeno produttive, aggiungerei. In L’Aiguille creuse si compiace di mostrare a Beautrelet gioielli, quadri, mobili preziosi che ha stivato in una roccia di Etretat – la “guglia vuota”, appunto, simile al nido d’aquila abitato da Sandokan sui contrafforti di Mompracem. Non ha dunque un comportamento da borghese, visto che non reinveste, ma nemmeno da esponente delle classi subalterne. Direi piuttosto che aspira all’aristocrazia.
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