Raymond Chandler, uno dei più famosi esponenti del giallo d’azione hard-boiled all’americana, insieme al grande Dashiell Hammett, scrisse nel 1939 il primo dei suoi otto romanzi con Philip Marlowe ,“Il grande sonno” (The Big Sleep), e l’ultimo (non terminato) vent’anni dopo, nel 1959.
Nel dicembre del 1944 uscì sul mensile “The Atlantic” un suo articolo, intitolato “La semplice arte del delitto” (The Simple Art of Murder), nel quale sosteneva che i gialli dovrebbero essere realistici, in contrapposizione con la tendenza imperante nel giallo deduttivo classico all’inglese (mystery). Quest’ultimo, trapiantato negli Stati Uniti da autori come S.S. Van Dine (pseudonimo di Willard Huntington Wright) ed Ellery Queen (pseudonimo dei due cugini Frederick Dannay e Manfred Bennington Lee) privilegiava invece la costruzione dell’enigma e la sua soluzione.
L’articolo fu ampliato e riproposto all’interno di una raccolta di saggi curata da Howard Haycraft e intitolata “The Art of the Mystery Story” (Simon & Schuster, 1946). Il saggio di Chandler non va confuso con un suo articolo più breve che venne pubblicato (il 15 aprile del 1950) nel settimanale “The Saturday Review of Literature”, con lo stesso titolo ma con un contenuto diverso. Entrambi gli articoli vennero poi inseriti anche nell’antologia di Chandler “La semplice arte del delitto” (Houghton Mifflin, 1950) usando il breve articolo per l’introduzione e l’altro come postfazione.
La prescrizione sull’esigenza di realismo compare anche nelle dieci regole annotate sul taccuino dello scrittore, sotto il titolo “Twelve Notes on the Mystery Story”. Come si vede ne mancano due, ma ci sono le più importanti: la tre e la quattro. La numero tre prescrive appunto che un giallo dev’essere realistico nei personaggi, nell’ambientazione e nell’atmosfera.
La regola numero quattro dice invece che la storia dev’essere valida, a prescindere dal fatto che si tratti di un giallo. Si noti che Chandler parla di “Mystery Story”, cioè del giallo deduttivo classico, a enigma, ma ha in mente il giallo come genere. Il famoso decalogo di Robert Knox parla invece di “Detective Stories”, ma ha in mente il giallo all’inglese.
La stessa cosa vale per le venti regole di Van Dine (“Twenty Rules for Writing Detective Stories”, The American Magazine, settembre 1928) e la sua regola numero sedici è in contrasto con l’idea di fondo di Chandler. Secondo Van Dine, in un romanzo giallo le descrizioni, l’atmosfera, le analisi psicologiche e i pezzi di bravura letteraria vanno ridotti al minimo, perché non hanno una grande importanza ai fini dell’indagine poliziesca.
Chandler non si limita a parlare di realismo, e spiega che scrivere gialli è in realtà un’operazione molto difficile. Il titolo del suo saggio è dunque ironico, o meglio antifrastico. Il motivo di questo rovesciamento semantico dell’aggettivo è che, malgrado la difficoltà che comporta scrivere buoni gialli, se ne scrivono in quantità, molti vengono pubblicati e quasi tutti vendono bene.
Va da sé che, essendo difficili da scrivere, la maggior parte di essi sono di livello medio, anche se vengono apprezzati a prescindere. Qui Chandler sta parlando soprattutto del giallo classico, e il fatto che vengano sfornati a vagonate conferma che non possono essere tutti dei capolavori. Egli cita la differenza, posta da Dorothy Sayers nella prefazione al primo “The Omnibus of Crime” (Payson & Clarke, 1929) tra letteratura di evasione e letteratura di espressione, e la contesta.
Secondo lui non è l’argomento (in questo caso il delitto) a fare la differenza tra le due presunte forme di narrativa. Dipende da chi scrive la storia, dice Chandler. Non ci sono soggetti noiosi, ma solo menti noiose, e l’intrattenimento è legato a una qualunque lettura piacevole, fosse pure (per alcuni) un trattato di matematica. La narrativa poliziesca di medio livello satura il mercato perché narrativa letteraria e narrativa gialla di medio livello si equivalgono; però la narrativa letteraria di livello medio di solito non viene stampata, mentre i polizieschi di medio livello sì, perché vendono comunque.
Questo stato di cose irrita Chandler al punto da spingerlo a una conclusione discutibile: i gialli di medio livello non sono molto diversi da quelli che sono considerati dei capolavori del genere. Per sostenere la sua affermazione, Chandler disseziona un romanzo giallo di A.A. Milne: “Il mistero di Corte Rossa” (The Red House Mystery, Methuen, 1922) allo scopo di mostrarne l’inconsistenza.
Non c’è qui lo spazio per scendere nei dettagli. Basti sapere che il romanzo è basato su uno scambio di persona che, in base all’analisi di Chandler, semplicemente non sta in piedi. La struttura creata da Milne è in effetti un po’ debole, ma forse non così assurda come ritiene Chandler. In ogni caso, Milne non è un giallista, ma uno che scrive anche per i bambini (è il creatore del personaggio di Winnie-the-Pooh) ed è possibile che non intendesse scrivere un giallo con tutti i crismi, ma un semplice divertissement.
La questione è però complicata non tanto dal successo del libro, che è piacevole da leggere, ma dai riconoscimenti che il romanzo ha ottenuto in quanto giallo ad enigma. Il critico Alexander Woolcott lo riteneva uno dei tre migliori gialli di tutti i tempi, ed è questo a irritare Chandler e a offrirgli il materiale per la sua polemica.
“La semplice arte del delitto” merita una discussione più ampia, che qui non è possibile fare. Per concludere, vogliamo citare il giudizio espresso nei confronti di Arthur Conan Doyle. Chandler dice che tutti gli scrittori di gialli commettono, inevitabilmente, degli errori, e che ne ha fatto qualcuno anche Doyle. Aggiunge però che Doyle era un pioniere, e che Sherlock Holmes sta tutto negli atteggiamenti del personaggio e in un certo quantitativo di dialoghi indimenticabili. Come dire che, per creare un grande protagonista, non occorre chissà che cosa, bastano pochi tocchi di genio.
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