Il sette bello di Alessandro Varaldo, Mondadori 2022.
Roma 1930. Quattro amici al bar come nella nota canzone. No, non propriamente al bar ma alla trattoria del Gambero Verde mentre giocano a scopone. Eccoli: Giovanni Rèvere, eterno studente universitario con due lauree e mezzo; il pittore non troppo fortunato Giacomo Serra; il maggiore dei bersaglieri toscano Biondo Biondi e la bella studentessa di medicina Maddalena Terzi, modello di virtù, che preferisce essere chiamata Maud. Tutti presi dalla noia e dalla voglia di avventura. E l’avventura arriva quando, su iniziativa di Maud, decidono di rispondere ad un annuncio sul giornale “di una signorina bellissima e ricchissima che richiede i servigi di una persona giovane e coraggiosa per uno scopo non precisato.” Si ritroveranno, così, all’indirizzo fornito da una seconda lettera dove, appena suonato il campanello, odono “il secco strepito di un’arma da fuoco.”
Dentro ci sarà una donna morta e una ragazza ferita ad un braccio in stato di choc che si rivelerà essere la sorella di Maud. Finestre chiuse e porta chiusa. Un bel caso per il commissario celibe Ascanio Bonichi, compagno di università di Giovanni, dai folti baffi neri, semplice, bonario e inoffensivo dall’apparenza trasandata, contrario all’approccio scientifico delle indagini e alle deduzioni tipiche dei classici del delitto. Semmai, per lui, è il Caso con la C maiuscola a risolvere i misteri più inestricabili.
Sintetizzare anche per sommi capi tutto l’ambaradan varaldesco delle cinque voci narranti, ovvero quelle dei quattro giovani e del commissario, ognuna con le proprie caratteristiche, è impresa disperata. Butto giù all’impronta qualcosa rimasta nella memoria. Per esempio un ometto strano con un mantello fuori moda che appare e scompare di continuo; un fazzoletto con un profumo piuttosto particolare; l’accoltellamento improvviso di Giovanni e la sparizione di Maud; Giacomo Serra che cade privo di sensi con un febbrone da cavallo; qualche tipo losco come Nino er Boja insieme ad altri personaggi altolocati, e pur sempre equivoci, come il principe di Lampugnano e la principessa di Capodimonte che qualcosa potrebbero nascondere…
No, basta, troppo difficile anche solo appuntare qualcosa sulla carta. Qui siamo di fronte ad un miscuglio di dramma, melodramma, romanzo d’avventura, ad un aggrovigliarsi di situazioni non prive di strani sogni premonitori e ad un continuo, incessante movimento punteggiato da piccoli colpi di scena come nelle storie di Wallace. Sia all’interno di Roma che nella periferia e nelle campagne in un mondo spensierato che ancora non si rende conto di cosa sia il Fascismo. Attraverso una scrittura semplice che si avvale anche del dialetto e sa pure librarsi, al momento opportuno, nelle più alte sfere. Con citazione imprescindibile di Sherlock.
Al centro i quattro amici ottimamente caratterizzati e legati fra loro da veri sentimenti (non mancherà anche l’innamoramento) e, soprattutto, il nostro commissario alla Maigret munito non di pipa ma di sigari, bastone, rivoltella, lampadina tascabile e fischietto, tutto ligio al dovere anche contro i potenti e il rischio di essere spedito in Sardegna. Ma se tra le carte della vita arriva il sette bello allora si può chiudere in bellezza.
Ecco in scarsissima, deficitaria sintesi il primo libro di Alessandro Varaldo che, fra le tante attività, si è cimentato anche nel genere “giallo” aprendo la via “italiana” diversa dall’imperante modello anglosassone.
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