La scrittrice Daniela Stallo torna in libreria con BRUCIATI VIVI (ARKADIA, Collana Eclypse), un noir dove fatti di sangue e indagini si intrecciano a un racconto di scuola, di donne, di desideri e ricerca della felicità.
Daniela, partiamo dal genere: il Noir. Perché lo hai scelto e che ruolo svolgono le indagini nella storia che racconti?
È stata una scelta. Non considerando la passione personale per il genere, l’idea che il noir sia il prototipo scritto della realtà mi consentiva di trattare un tema sociale, era il pretesto per raccontare una storia e una donna, il palcoscenico strutturato ad hoc dove Luisa, la protagonista, e la sua tragedia, potessero muoversi con naturalezza. Il noir non mette necessariamente in risalto le indagini, l’investigatore, la trama criminale, quanto il mondo segreto delle persone, dell’ambiente che sta dietro il delitto. Il crimine, i crimini del romanzo, servono perché i personaggi di Bruciati vivi accompagnino il lettore in un viaggio nella mente, prima che nelle loro azioni. E poi, alla fine del libro, nessuno è consolato, nessuno si salva, non esistono riscatti.
Il tema principale è il burnout nella scuola, la sindrome, le fasi della malattia (che portano all’autolesionismo), i sintomi. Chi sono i bruciati vivi?
I bruciati vivi sono i lavoratori, quelli che hanno alle spalle un percorso anche lungo, magari nello stesso posto, nella stessa azienda, nello stesso ufficio.
Solo per caso, perché ne conosco la realtà, il noir è ambientato in una scuola, e lì avvengono i crimini. Ma i protagonisti sono i lavoratori di qualunque settore, pubblico e privato, i demotivati, quelli che non ce la fanno più, che vorrebbero cambiare, ma per le condizioni del mercato, spesso per l’età, a volte per le competenze mancanti, sono costretti a stare fermi. Bloccati in un lavoro grigio, non rassicurante, frustrante, forse malpagato. Il tempo e la disillusione incidono fortemente sulla condizione del lavoratore, l’idea del lavoro servizio all’altro si sfalda.
Chi ha dato una sorta di imprimatur affinché niente fosse improvvisato?
Ho osservato per anni, da insegnante, i nostri comportamenti, mi sono analizzata, ho parlato con psicologi, ho preso appunti. Cercavo di scrivere un libro doloroso, ma allo stesso tempo di non scadere nell’eccesso, nel sensazionalismo che diventa caricatura di certi modi di fare.
Soprattutto ho studiato, prima di scrivere, e durante la formazione del libro, perché niente fosse improvvisato, ho consultato gli studi del dott. Lodolo D’Oria che da anni si dedica al problema, con specifico approfondimento alla scuola, e altro materiale. Lo stesso dottor Lodolo D’Oria ha letto il testo prima che lo proponessi alle case editrici. Non direi un imprimatur, ma di certo una guida.
Veniamo alla trama: la scoperta della somma di denaro poi restituita e due omicidi. Come coniugare questi fatti al lavoro di introspezione psicologica che hai svolto sulla protagonista, Luisa Marinai?
Luisa riceve, in maniera singolare, una somma di denaro inaspettata, non la ruba, la occulta in maniera disonesta. Il fatto è realmente accaduto in un paese del grossetano, i giornali ne hanno parlato, ho preso in prestito l’idea. La trama prende avvio da questa azione: Luisa, donna ormai in crisi, piena di paure e di sensi di colpa, di rancore e insoddisfazione, inizia un percorso dentro di sé per poter gestire un atto non morale, che ha commesso, e a cui non è abituata. Ragiona sulle sue motivazioni, decide come comportarsi, ma lo snodo narrativo sta proprio nella decisione che è sì azione, ma scatena altre reazioni, moltiplica la rabbia, le ossessioni, le manie di persecuzione. Mente e azione sono fortemente connessi, in tutti i personaggi del libro, anche in quelli secondari, nel principale sospettato degli omicidi, anche nelle comparse.
L’usura psicofisica è aggravata per chiunque dalla propria storia familiare?
Di certo la vita privata, le relazioni in famiglia, più o meno forti, più o meno problematiche, il livello di inserimento in una comunità sono determinanti perché un soggetto sia più o meno fragile e dunque esposto alla sindrome del burnout.
Luisa ha una scadente relazione con il marito, col figlio, coi genitori. Non necessariamente per qualche colpa, semplicemente perché le situazioni sono cambiate e qualcuno – lei stessa, Thomas, la sua migliore amica – non sono riusciti a evolversi.
E in questo libro, in particolare, la situazione è aggravata dal pendolarismo. Un noir dei pendolari, si sviluppa per strada, che divide posti e persone, sotto la pioggia, nello straniamento di luoghi che restano ostili.
Infine, Daniela, potremmo dire che con questo libro hai dato voce agli “invisibili” facendolo diventare una vera e propria denuncia di malessere e disagio?
Lo stress psicofisico dei lavoratori è la malattia invisibile, sottovalutata, è la patologia, secondo i canoni del nostro mondo, dei deboli, degli smidollati, degli insoddisfatti cronici. Ha a che fare con i sentimenti, l’infelicità, e di questo si parla spesso con molto imbarazzo. Sarebbe tempo che la percezione delle cose e dei disagi cambiasse.
Sebbene il burnout sia stato recentemente riconosciuto dalla comunità scientifica come “condizione” non ha ancora assunto la valenza di vera e propria “patologia”, nessuno che lo riconosca ufficialmente una malattia professionale.
E poi volevo dare voce all’invisibilità delle donne, di alcune donne: Luisa è un’invisibile (coltiva l’invisibilità, afferma, è un suo obiettivo, eppure è consapevole di esserlo già, per gli altri, la famiglia, i colleghi, gli alunni). Crede che la vita abbia deciso per lei la strada da seguire, è donna invisibile anche ai meccanismi dell’esistenza che si compiono al di fuori di lei e della sua volontà. Mi sta molto a cuore la scrittura al femminile, la scrittura che parli di donne e per le donne.
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