Andiamo a scoprire una nuova opera della letteratura gialla con la collana Oltreconfine della casa editrice Le Assassine. La nostra attenzione questa volta va a “Echi del silenzio” di Chuah Guat Eng, la prima autrice malese che scrive e pubblica in lingua inglese e che fa del genere “giallo” un mezzo di critica sociale, prestando attenzione a non incorrere nella censura e nelle leggi punitive del suo Paese.
Tiziana, come sempre ti chiediamo di raccontarci qualcosa dell’autrice e del suo stile narrativo. A chi ispirarsi per un mistery, così poco diffuso in Malesia?
Chuah Guat Eng, autrice di Echi del silenzio, è la prima scrittrice malese che scrive e pubblica in lingua inglese, che lei considera la sua lingua madre. Se vedete una sua foto sulla copertina del suo libro, noterete però che i suoi tratti hanno un qualcosa di cinese. In effetti è una discendente di immigrati cinesi, i Perankan, arrivati in Malesia tra il XV e il XVII secolo per lavorare nelle miniere. Per mestiere Chuah ha sempre lavorato con le parole: è stata infatti lettrice di letteratura inglese all’università di Kuala Lumpur e alla Ludwig Maximilian di Monaco, inoltre ha lavorato come consulente di comunicazione e tiene tuttora laboratori di scrittura.
Chuah Guat Eng si è cimentata qui in un giallo, e lo ha fatto con un punto di vista del tutto orientale. Come mi ha spiegato, il giallo classico all’occidentale dove ha luogo un delitto, si indaga e il colpevole viene alla fine affidato alle patrie galere, non si addice alla mentalità orientale, dove manca la fiducia nella giustizia terrena, e si pensa che sarà la giustizia nell’aldilà a fare i conti con chi si è macchiato di un crimine. Dunque, nonostante l’autrice sia un’amante dei gialli e conosca benissimo Agatha Christie, l’ispirazione le viene da un altro tipo di scrittore di gialli, da Wilkie Collins e dalla sua Pietra di luna. In effetti gli elementi che ricordano questo romanzo ottocentesco sono parecchi: il diamante (che in Echi del silenzio sono due), la varietà dei personaggi, attentamente descritti, i racconti narrati dai diversi personaggi o nelle lettere.
Quale spaccato socio culturale malese emerge dalle pagine di questo libro?
Uno spaccato piuttosto ampio che va dagli anni della Seconda Guerra Mondiale fino agli anni Settanta del secolo scorso. Nel mezzo ci sono l’occupazione giapponese, la guerriglia dei comunisti contro gli invasori, l’indipendenza della Malesia, la coesistenza non sempre pacifica del melting pot che costituisce questa nazione.
È così che il mystery diventa uno strumento per simbolizzare tutto quello che non va, un modo per chiedersi come si possa tollerare l’ingiustizia e i crimini rimasti irrisolti?
Sì, l’autrice ha voluto utilizzare questo genere letterario per aggirare la censura del suo Paese e attraverso il mystery chiedersi come mai i malesi non si ribellino a uno Stato corrotto, che per interessi del suo primo ministro ha smantellato il sistema giudiziario e ha sostituito i giudici in carica con personaggi graditi al regime. Il libro è pieno di silenzi e di cose non dette, un espediente che Chuah Guat Eng utilizza appunto per domandarsi se i malesi tacciano perché hanno ereditato un certo servilismo dall’epoca in cui erano un Protettorato britannico o perché la loro natura, come quella degli orientali in generale, sia quella di ubbidire, di non discutere, persino all’interno della famiglia, e tra una generazione e l’altra.
Come si pone l’autrice nei confronti dei compatrioti?
Direi che il suo è un atteggiamento molto sfaccettato: si sente malese, ma non fa propria la lingua malese tanto che si esprime e scrive in inglese e ha senz’altro un atteggiamento critico verso i comportamenti dei suoi compatrioti. Non sente nemmeno un legame stretto con la comunità cinese, che anzi critica con una certa asprezza. All’epoca dei disordini razziali del ’69 tra i malesi (detentori del potere politico) e i cinesi (detentori del potere economico), ci fu una diaspora di questi ultimi verso l’Australia. Rientrarono solo anni dopo per motivi puramente economici e Chuah sottolinea come in loro prevalga sempre l’interesse per il denaro e nessun attaccamento alla patria in cui sono nati.
Emerge, lo hai già anticipato, un punto particolare nella vita malese: il senso di una presenza pervasiva dello spirituale, del soprannaturale, del karma. La vittima dove trova giustizia?
La vittima troverà giustizia nell’aldilà, del resto la poca fiducia nella giustizia terrena si manifesta nel fatto che, seppur a conoscenza di un crimine, nessuno andrebbe alla polizia per denunciarlo.
E il colpevole, di solito, chi è?
Il colpevole potrebbe essere uno di famiglia, ma nessuno lo denuncerebbe mai.
Infine, per fare un parallelismo con l’Occidente, una miss Marple o un Hercules Poirot sarebbero quindi del tutto irrealistici?
Direi di sì. Il giallo classico che prevede un misfatto, un’indagine e infine l’arresto del colpevole che in questo mondo ricompone l’ordine costituito, sembra a mio avviso al di fuori dello schema che ci propone l’autrice e forse, come mentalità e natura, è comune ad ulteriori scrittrici orientali… vedremo quando ce ne capiteranno altre.
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