Il Trio dell’arciduca di Hans Tuzzi, Bollati Boringhieri 2014.
“Giugno 1914: un mercante levantino viene trovato cadavere nelle acque del porto di Trieste. Oltre che un mercante, però, il morto è l’informatore di un giovane agente segreto imperialregio, Nero Vukcic, che sospetta subito un omicidio. Comincia così un’indagine che si trasforma ben presto in un percorso a ritroso, basato su indizi e deduzioni: dall’ultima tappa toccata dal mercante prima di morire annegato, Sarajevo, Vukcic arriva sino ad Istanbul, la capitale del vecchio impero ottomano, a quel tempo ancora Costantinopoli”.
Che questo Nero sia, in effetti, il futuro Nero Wolfe (senza aspettare la conferma finale) lo si può intuire, più o meno agevolmente, sia dal luogo di nascita, dalla corporatura già consistente, dalle labbra serrate che muove avanti e indietro ma, soprattutto, dalla buona cucina che si spande per il racconto tra capperi e cipolline tritate, sardoni con vino bianco secco, pesci, crostacei, stinco di maiale al forno, polenta e funghi, formaggi di capra, luccio alla Regina, grappa forte e profumata, caffè alla turca…
E qui, da giovane, non se ne sta certo in panciolle abbarbicato alla sua poltrona, ma gira di continuo con un passaporto falso, viene seguito, cerca di sfuggire al pedinamento buttandosi da un camion e travestendosi da prete, rischia più volte la vita. E insomma trattasi di un intrigo di spie dei tre imperi, l’austriaco, il turco, il russo, di mezzo società segrete e qualcuno che si prepara a fare la festa a Sarajevo.
Citato Sherlock Holmes secondo prassi consolidata.
Prosa schietta da leggersi con l’occhio vispo che tra i casini spionistici ci si può confondere.
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