Il professor Giordani (Glauco Mauri) sarebbe più utile e così la scrittrice Amanda Righetti (Giuliana Calandra) se l’assassino non chiudesse a entrambi la bocca in maniera teatrale. Perché si domanda lo spettatore? perché mettere in scena delitti complicati con il solo scopo di mostrare cose che solo il morto vede? Per spaventarlo? Ma non era un semplice ostacolo da eliminare? Non ponetevi questa domanda e godetevi il brivido. L’assassino è pazzo, quale altra motivazione vorreste per i suoi atti? E intanto arriviamo a sospettare di Marco, giovane travagliato, caratterizzato come omosessuale, così bravo (Gabriele Lavia) da rubare la scena a Hemmings. Ma non è lui l’assassino, bensì la madre, Clara Calamai, descritta prima come innocua vecchierella fuori di testa ma, alla fine, insospettabilmente dotata per omicidi anche fisicamente impegnativi.
Sempre la forza della follia. Quella pazzia che decide per Marco una morte “accidentale” ma atroce e per sua madre una punizione esemplare, letteralmente messa in moto dai meccanismi di un ascensore. Giallo non certo “a prova di bomba” sul piano della logica, forse insostenibile in forma scritta, ma assolutamente geniale sullo schermo. Vediamo perché. Argento gioca soprattutto sull’accumulo di emozioni. La struttura “gialla” del suo racconto, benché supportata da frequenti spiegazioni, deduzioni, rimandi da un dettaglio a un altro, è un’impalcatura attorno alla quale è costruito un palazzo che palpita di emozioni visive, sonore, di allusioni e stati d’animo. Per cui il “particolare mancante”, l’indizio contenuto in un vecchio libro di leggende, un disegno preso da un archivio sono strumenti che servono al regista per solleticare l’immaginazione dello spettatore.
Questa continuamente punzecchiata da ipotesi sulla naturale l’identità del criminale che ci appare onnipotente, onnisciente, capace di indovinare ogni mossa degli altri personaggi e prevenirla, spesso in modo sanguinoso. Gli spazi vuoti, gli arredi sontuosi, macabri della casa della medium, stravaganti dell’appartamento del travestito che ospita Carlo, sono oggetti di scena. Il protagonista è solo in un ambiente ostile che riecheggia le sue stesse paure, i timori nascosti. I movimenti di macchina, lenti, circolari rispecchiano, di volta in volta, l’occhio del protagonista, dell’assassino, dello spettatore che diventano tutt’uno. E qui particolari apparentemente estranei alla vicenda contribuiscono ad alzare la tensione.
Nicoletta Elmi, perfida bambina dai capelli rossi che si morde il labbro e tortura gli animali, non ha un diretto legame con l’assassino, ma fa la sua parte per creare tensione. Esattamente come i merli della Calandra e il Mad Puppett azionato in casa di Glauco Mauri. Ripeto, non esiste che un labile filo logico tra tutti questi elementi ma insieme creano un’opera corale, un’esperienza terrificante che Argento mette in scena per strappare lo spettatore del mondo reale e proiettarlo in un universo “suo” dominato dai pensieri “malvagi” dell’assassino ma che, riconosciamolo, si annidano dentro di noi. Un’ultima annotazione.
Antonio Tentori nel suo Sotto gli occhi dell’assassino parlando di Trauma cita una diversa versione della scena iniziale ambientata nel convegno di parapsicologi. Pare che, in una versione precedente di sceneggiatura, il frammento fosse inserito in una seduta spiritica che, per ragioni di plausibilità del racconto (l’assassino di cui Helga sente la presenza si allontana, cosa che nel quadro casalingo della seduta era impossibile) venne poi cambiata e spostata nel film del 1993, Trauma appunto. Piccole curiosità che alimentano il mito.
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