Il “thrilling” italiano è, a mio avviso, una delle fonti di maggior ispirazione dei giallisti della mia generazione e delle successive. Forse perché io considero gli anni ’70, anni di formazione, forse perché, allora, di cose interessanti ce ne’erano davvero molte. Quando penso a un giallo italiano, benché non manchino esempi letterari illustri da sempre, vedo come modello il cinema di quelle stagioni. Tra tutti i film che periodicamente rivedo per “capire un po’ le regole del gioco” Profondo Rosso di Dario Argento resta un cult.
Vale la pena di analizzarlo ogni volta per coglierne i meccanismi, i particolari. Mi piace condividere con voi il mio punto di vista che, magari, non sempre sarà oro colato e, certamente, è discutibile. Uno studio appassionato comunque, un tributo a un film che resterà nella memoria e non a caso, non per giochi di marketing. Semplicemente perché è un ottimo film. Un prodotto italiano di cui andare fieri.
Profondo rosso è il quarto della prima serie di Argento; doveva far parte del bestiario (tanto che il titolo di lavorazione era La tigre dai denti a sciabola), ma qualcosa, rispetto ai precedenti film, era cambiato. Azzeccato quindi il titolo, semplice, efficace come il manifesto con quella macchia rossa in cui si riflette il viso di David Hemmings proprio come nel film il volto dell’assassino si riflette in uno specchio, confusamente, per un istante indimenticabile che crea l’effetto del “particolare mancante”. Una storia di follia, di omicidi commessi per coprire tracce ma, molto probabilmente, anche perché uccidere è una morbosa compulsione nella mente dell’assassino. Inevitabile e inarrestabile.
Prima di addentarci in un’analisi particolareggiata occorre dire che Argento gioca al meglio con il medium cinematografico riunendo sceneggiatura, interpretazione, movimenti di macchina e musica in un cocktail che è, al tempo stesso, nuovo e tradizionale. L’inserimento delle musiche di Gaslini eseguite dai Goblin in chiave hard rock diventerà un classico, ma accostare alla brutalità omicida (si veda la morte della medium Helga o del professor Giordani che picchia su tutti gli spigoli della sua casa proiettando sullo spettatore sensazioni di dolore vero magari sperimentato in misura minore in qualche occasione) con il tono da commedia sofisticata americana dei duetti Hemmings-Nicolodi è un vero tocco di genio. Il cinema (TUTTO il cinema non solo quello della paura) in sintesi.Brevemente rivediamo la trama. Ricordiamoci, però, che la storia è solo un pretesto per giocare con le sensazioni. Logica e cartesiana limpidezza dell’intreccio, inteso come “whodunit” non c’entrano. Non per errore, ma per voluta direttiva del regista.
Un trauma infantile. Una donna, attrice un tempo di successo, ora malata di mente, probabilmente pericolosa, compie un delitto accoltellando il coniuge la vigilia di Natale. Il movente è il rifiuto di un ennesimo ricovero in clinica. Tutto consumato sotto gli occhi di un biondo fanciullo con l’accompagnamento di una musichetta infantile e gioiosa. Vediamo a tratti questa tragedia, volutamente spezzata per indurre lo spettatore su strade lontane dalla verità. Di quella follia (i “macro” di oggetti semplici ma terrificanti nella loro composizione) che ci troviamo di fronte nelle prime scene, sarebbero rimaste solo le urla udite nei pressi di una villa non ben identificata alle porte di Roma. Roba da leggende urbane, finita appunto su un libello da mercatini. È la presenza di una sensitiva che coglie tra gli spettatori “pensieri malvagi” a scatenare una serie di omicidi che coinvolgono in qualità di riottoso testimone il jazzista Mark Daly. Questi dalla piazza sottostante dove filosofeggia sul nichilismo dell’amico Marco, pianista distrutto dall’alcol, ode l’urlo della sensitiva assassinata. Accorre in suo aiuto e vede qualcosa, “qualcosa” di importante ma che, al momento, non riesce a ricordare. Gianna Brezzi, giornalista ficcanaso che un po’è innamorata di Daly, un po’ sogna lo scoop, crea un bel pasticcio, citando un testimone oculare in grado di smascherare l’assassino. Da qui comincia una partita fatta di indagini, di soppressioni di testimoni, tutto condito con una potente dose di simbolismi magici, di suggestioni, di sangue versato in maniera efferata. Mark e Gianna sono ben poco aiutati dal commissario Calcabrini, interpretato da Eros Pagni, simpatico ma totalmente imbecille (emblematica e indimenticabile la battuta: «Ah, così lei è musicista? Ma cosa fa di lavoro davvero nella vita?»).
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