La bella di Buenos Aires di Manuel Vázquez Montalbán, Feltrinelli 2013.
Biscuter a Carvalho “Lei, capo, manca di modernità”. Unico mezzo tecnico presente nell’ufficio il telefono. Immobilismo. Bisogna stare al passo coi tempi. Occorre almeno un fax per la ditta “Carvalho & Biscuter, detective associati” (intanto ci si tira su con “spaghetti alla genovese e blanquette d’agnello al curry”).
Subito la magia del fax con la richiesta di un consulto. Sparita una ragazza che avrebbe potuto essere l’Emanuelle argentina (chi non ricorda Sylvia Kristel?). Bisogna cercarla. Trovata morta come barbona assassinata da una serie di pugnalate, l’ultima al cuore. Nome Barbara Helga Singer, Palita “per i suoi colleghi di miserie”. Una ragazza che sognava di diventare una star, sfruttata e rimasta incinta. Indagine della polizia, di Carvalho e Biscuter. Nel mondo del teatro, fra i barboni che hanno la merda come corazza “sul corpo e sull’anima”.
Altri morti ammazzati, un po’ di sesso (Biscuter montato da una Pepita sbracata) anche per Carvalho dimentico di come sia fatta una donna, la buona cucina che ritorna ogni tanto (vedi l’agnello in salsa di capperi), la fissazione di bruciare i libri che non insegnano a vivere ma solo a mascherarci.
Ma chi è l’assassino? La Storia, la guerra sporca, il passato? O si tratta di uno spunto individuale? Una brutta vicenda che scopre una società ipocrita, fatta di compromessi, raggiri e violenza (di mezzo pure un corpo operativo speciale) delineata con un sorriso ironico leggero (soprattutto se si parla del “moderno” Biscuter, ex ladro di macchine costose) e spesso malinconico, con un buon finale da colpo di teatro.
Montalbán è Montalbán.
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