L’occasione è quella giusta, mi sembra, per spiegare al pubblico che un romanzo storico non deve essere, necessariamente, legato al medioevo o al rinascimento, ma anche a un passato, come questo, non troppo lontano e forse nemmeno troppo conosciuto. Perché infatti abbiamo sempre sentito tanto parlare della Grande Depressione americana del 1929 e mai della Recessione Nera del 1923 in Germania? Per meglio convincere cito, così a memoria, alcuni dati che, da soli, bastano a fare il quadro della situazione. Negli anni venti, a Monaco, i prezzi dei generi alimentari di base crebbero con una tale progressione da dover essere espressi ben presto in milioni di reichsmark, fino al punto che costava di più la carta su cui le banconote venivano stampate che non il loro valore intrinseco. Ad Agosto del 1922 il pane costava 8,20 reichsmark, appena un anno dopo era salito ad oltre 35.000 reichsmark.

Questo è il periodo che a Robert Ultner interessa narrare mostrandoci, attraverso la storia, come anche un ispettore di polizia, dopo aver perso il posto per motivi se non politici quanto meno ideologici, possa essere costretto a mendicare un lavoro, a dover impegnare i pochi ricordi di famiglia in cambio di un pasto caldo, a trovarsi suo malgrado indotto ad accettare loschi ed equivoci incarichi pur di sbarcare il lunario, per poi rincasare a tarda sera in una misera camera d’affitto, cercando di scansare la proprietaria che reclama la pigione. È in questo contesto di fame, di miseria, di incertezza, in cui versa tutta la Germania degli anni venti, che si consuma un delitto a prima vista rivestito dalle meste apparenze di un suicidio. Ma l’ispettore Kajetan, lo stesso che ci aveva affascinato già al tempo del suo esordio con Un’indagine senza importanza, ancora una volta, non ci vede chiaro e proprio non ci sta a catalogare anche questa come una morte senza importanza e, a dispetto di tutto e di tutti, perfino di un ruolo ufficiale che ora non ha più, continua a indagare, determinato e agguerrito, per trovare la verità.

E qui si innesta da parte dei presenti in sala tutta una serie di domande, perché Kajetan sembra quasi volersi trascinare incurante di tutto quello che gli capita, fino a riscuotersi improvvisamente solo quando la giovane donna, che per un breve attimo gli ha illuminato la vita, viene trovata morta? Perché, alla fine, quando la verità emerge in mezzo a leggende contadine e vecchi segreti di un paese silente ed omertoso, nessuno paga e sembra quasi che la giustizia non trionfi? Perché, infine, nulla è mai come appare e anche quando tutto si rivela, il nostro sguardo rimane offuscato dalla tetra consapevolezza che nulla cambia e tutto rimane com’era?

A questi interrogativi però c’è una risposta sola. Nei grandi romanzi, quelli dove il Giallo prende prepotente la sua G maiuscola, non può esistere un finale consolatorio, né un personaggio infallibile, né una storia dove nessuno si fa mai male, perché la narrativa vera, quella che funziona davvero, ben lungi dall’essere la realtà, deve però imitarla, e la realtà, purtroppo, ha proprio queste precise caratteristiche. Spesso ci si accontenta, come Kajetan, di un finale catartico, che in qualche modo rimette a posto le carte e ripaga i vecchi debiti, ma solo per quel fosco tessitore di trame che è il Destino, non certo per la mera soddisfazione del singolo né tantomeno per un mal riposto anelito di giustizia. Sono verità, queste, che si bastano da sole, come macchinari e vecchi ingranaggi che, proprio nell’ultima pagina, dopo anni di immoto silenzio, si rimettono in vita, spinti, ancora una volta, da flussi e leggi fisiche naturali ed implacabili, come lo scorrere dell’acqua.

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