Questa era l’atmosfera che si respirava in quella casa, in quella Vigilia di Natale, dell’anno 2007. Gli unici che parevano non avere mire erano il padrone di casa, il Dott. Gregorio  Cavaliere, e gli zii Adelina e Franco: il primo, gongolante appena riusciva a procurarsi su Internet qualche opera mancante di Connington, non manifestava alcuna velleità di possedere qualche centinaio di migliaia di euro in più: almeno era quello che lasciava trapelare, perché con tutti quei soldi avrebbe comprato tutti i pezzi mancanti alla sua museale collezione di Gialli, prime edizioni che mai e poi mai sarebbe riuscito a procurarsi con suo lavoro di correggi bozze presso una piccola casa editrice, la “C., C. & Comics Press” che pubblicava fumetti per adulti, tradotti dal francese. Per lui, laureato alla Sorbona, quel lavoro che gli assicurava di che vivere, non era poi male, ma tradurre le espressioni colorite di Pichard a fronte delle sue tavole più che esplicite, per lui, attirato dalle atmosfere così inglesi dei romanzi di Connington, era un affronto: sognava quanto presto di potersi affrancare da quel giogo così umiliante.

Anche gli zii Franco e Adelina, che a loro dire non avrebbero saputo cosa farsene di quei soldi, in verità li avrebbero potuto spendere bene per comprarsi un piccolo podere nelle Langhe e coltivare un po’ di uva, così da farsi il nebbiolo in casa: vecchio sogno di piemontesi che bevevano Dolcetto, ma che avrebbero voluto bere, e offrire come vanto ai propri ospiti, un Fara, un Lessona o un Ghemme, vini intoccabili per il costo di ciascuna bottiglia, giacchè il Dolcetto d’Alba, che non sfigura affatto su ogni tavola, veniva usato a piè spinto per ogni piatto che su una tavola più opulenta avrebbe richiesto una caratterizzazione più precisa o decisa, tipo il Barolo in accompagnamento al Castelmagno, o alle costolette di capriolo.

A quella tavola, 9 persone in competizione, erano sedute: conversavano, discorrevano e si osservavano, attente a non dare opportunità agli altri di poter affondare. Cosicché quell’occasione di svago e di unione familiare, diventò ben presto una battaglia navale o un compito di strategia militare che, sicuramente, Von Clausewitz avrebbe rispettato e approvato.

Andò avanti bene il tutto sino…ai fatidici cappelletti, che arrivarono nella zuppiera fumante, accompagnati da un applauso liberatorio: per la Mariannina, di poter finalmente dimostrare che la sua era stata una fatica tangibile, e per gli altri, almeno alcuni, di poter criticare la mancanza di requisiti fondamentali che avrebbero altrimenti permesso a quei cappelletti di essere indicati non come “dei semplici cappelletti”, ma “i cappelletti” per antonomasia. Più che cappelletti, sarebbe stato più giusto definirli “cappelloni”, visto che ognuno occupava a stento l’incavo di un cucchiaio da minestra. A ognuno dei commensali ne sarebbero spettati otto, per un totale di settantadue cappelletti; ed è quello che affermò la Mariannina con un’affermazione “a tutti denti”:

-A ognuno otto cappelletti. E…buon appetito!

E furono fatti i piatti.

E tutti cominciarono a mangiare.

E tutti erano soddisfatti e contenti.

Beh, proprio tutti no: la zia Adelina si lamentò che sulla tovaglia candida. Abbellita dal pizzo sangallo, già c’era uno sbaffo di brodo vicino al piatto del cugino Emilio; e quello replicò che non poteva certamente esser stato lui, visto che neanche aveva portato il primo cucchiaio alla bocca.

-Sarà- disse la zia Adelina.

–Certo, devi spiegare allora come mai anche la tua giacca si sia sporcata di brodo e parmigiano!

-Non sono stato io, punto.

Anche un altro dei commensali mugugnava: era la zia Ambrogina, che si doleva perché erano sparite…le sue pillole.

-Dico – diceva  lei – ma che ve ne fate di tre pillole, un gastroprotettore e due per il cuore? Se non è un burlone chi me le ha fatte sparire, è sicuramente uno che vuole attentare alla mia vita, e prendersi una fetta più grande dell’eredità della nonna Giuseppina! E così facendo ripose stizzita la scatoletta d’argento sulla tovaglia.

E sicuramente qualcuno era un gran burlone giacchè, mentre la cugina Mariannina era stata attenta a ripartire i cappelletti  nei piatti, si era sentita una musica ad alto volume provenire dal salotto, dove nessuno poteva esserci, che aveva sussultare tutti i presenti; o meglio quasi tutti, giacchè il Dies Irae dalla Messa di Requiem di Giuseppe Verdi, nell’interpretazione di Toscanini, non poteva essersi diffuso da solo; e siccome nessuno fu trovato nel salotto, che comunicava con la sala da pranzo tramite una porta scorrevole, e non aveva altre uscite, porta scorrevole in quel momento non chiusa del tutto ma accostata, e siccome lo stereo non era dotato della funzione di autoaccensione e autospegnimento, se non si voleva accettare l’ipotesi che il fantasma della nonna Giuseppina vi si fosse improvvisamente materializzato, in un’apoteosi di musica da giudizio finale, era altrimenti certo che qualcuno si era presa la briga di inscenare uno scherzo così clamoroso e aveva predisposto il tutto nei minimi particolari, perché accadesse. Ma come? Lì per lì nessuno ci pensò; ma tutti tornarono a girarsi sulla propria sedia allorquando la musica improvvisamente cessò, così come era iniziata, circa mezzo minuto prima.