Quel giorno decisamente aveva fretta, come sempre non era riuscito a tenere sotto controllo il tempo ed all’improvviso si era accorto che ormai stava facendo tardi.
Non era mai riuscito a capire bene il cammino dell’orologio, aveva sempre avuto l’impressione che le ore ed i minuti rimanessero inesorabilmente fermi finché lo teneva sott’occhio, salvo mettersi a correre tumultuosamente al primo attimo di distrazione.
Anche quella mattina le cose si erano svolte nel solito modo: mancavano due ore all’appuntamento, centoventi minuti, settemiladuecento secondi, non si sa quanti decimi, centesimi, millesimi, quando improvvisamente si era ritrovato con soli quindici minuti di tempo.
Non si era nemmeno potuto cambiare la calza bucata sul pollice, e ciò nonostante fosse un maniaco dell’ordine tanto da provare un fastidio fisico ad uscire con qualcosa di rotto, scucito, o peggio, sporco “E se mi capita qualcosa? Se, per dire, mi ricoverano all’ospedale e vedono il calzino rotto che figura ci faccio?”, si era risolto ad uscire così com’era visto che ormai era tardi, tardissimo.
“Un momento, la calza rotta! Ma quanto tempo è che non mi taglio le unghie dei piedi? Un mese, forse più vista la lunghezza. E’ possibile? Mio dio! Mio dio!” quel pensiero improvviso lo aveva fatto trasalire. Cosa gli stava accadendo? Perché quell’amnesia verso se stesso? Solo trascuratezza oppure…
Oppure anche lui non riusciva più a vedersi?
Era stato sempre il suo cruccio, gli altri sembravano sempre sotto un’ala di luce, lui no stava invece nell’ombra, per meglio dire nel buio. Una vita passata al buio.
A scuola aveva un bell’alzare la mano per essere interrogato, ma non veniva chiamato mai alla cattedra, l’attenzione degli insegnanti cadeva sempre su qualcuno vicino, il suo compagno di banco, qualcuno del banco immediatamente prima o dopo il suo, ma lui mai. Tanto che, dopo aver lasciato cadere molte volte sconsolatamente il braccio, aveva deciso di stare per sempre con le braccia conserte.
Anche per i compirti scritti le cose non cambiavano: mai un voto. Una sola volta l’insegnate di lettere gli disse, senza darsene cruccio, “Il tuo non l’ho corretto, non l’avevo visto. Lo farò la prossima volta”.
La prossima volta non c’era stata e nemmeno le parole del professore.
Già alle elementari le cose andavano così: un giorno provò ad entrare senza grembiule, un altro senza cartella, un altro ancora uscì durante la lezione. Non se ne accorse nessuno.
Nei giuochi poi la situazione non migliorava certamente, non veniva mai chiamato per le partite di pallone, anche se un giorno, li aveva contati, era riuscito ad inanellare più di mille palleggi consecutivi. A nascondino poi, non ci provava neppure, dopo quella volta che nessuno andò a cercarlo; non sentendo più le voci dei suoi amici, decise di rincasare, ormai erano le nove di sera e nel piazzale non era rimasto nessuno.
Quando suonò il campanello, i suoi aprirono la porta, e basta. Sulla tavola non vide il suo piatto.
Con il tempo aveva imparato a mangiarsi le lacrime della solitudine e ad apprezzare questa condizione di invisibilità che gli regalava uno spazio maggiore per conoscersi meglio, poter parlare con se stesso, ascoltarsi, approfondire i sentimenti.
Certo è che alla lunga la situazione divenne un po’ troppo noiosa. Se ne rese conto attorno ai quindici anni. Le prime feste in casa, i primi palpiti, un corpo che cresceva, alle volte anche in modo improvviso e senza controllo. La curiosità verso le sue compagne, l’illanguidimento verso le donne fatte che, con quei vestiti a tubino, coprivano per non coprire. Stava ad ore ad osservarle passare per la strada, salire sul tram, sulla macchina. Ne studiava ogni particolare, l’attaccatura della coscia, l’alternarsi delle natiche nel passo, il seno con quella consistenza metafisica che marcava subito, più di ogni parte del corpo, la differenza tra un uomo ed una donna. Si accorse che, quando questi pensieri lo avvolgevano, il suo corpo subiva evidenti mutamenti. Qualcosa si muoveva in modo prepotente. Dapprincipio ne ebbe paura, poi comprese che era così che doveva andare.
Fu per questo che divenne improvvisamente intraprendente, sino ad imbucarsi nelle feste senza essere invitato. Suonava, aprivano la porta e lui entrava, come entra l’aria. Passava intere serate a cambiare i dischi sul grammofono, ne guadagnò l’assoluta conoscenza di tutti i cantanti dell’epoca.
Una sola volta, gli parve, una ragazza si voltò verso di lui per dirgli qualcosa. Non poteva essere vero! Ed infatti non lo era, la giovane cercava unicamente di richiamare l’attenzione di un suo amico che stava dietro di lui. Anche i dopocena sulla spiaggia: un fuoco, una chitarra, qualcosa da bere, qualche sigaretta, non andavano meglio.
Una sera si accese un dibattito sul nome dell’autore di una canzone, “Balla Linda” era il titolo.
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