Ne fu sorpreso, non aveva avuto notizia che il suo non amato direttore fosse presente, quel giorno, nel centro direzionale. Ed adesso? Fare il viaggio assieme, doversi sorbire quella voce monocorde per più di due ore, quelle parole inutilmente inutili. Non lo rallegrava. Che fare? Per adesso meglio non guardarlo troppo, avrebbe potuto sentirsi osservato e, voltandosi, dare immediato inizio alla tortura logorroica.

Stava ancora pensando ai modi per evitarlo, prima che fosse troppo tardi, quando un vocìo indistinto richiamò la sua attenzione; si voltò, scorse un folto gruppo di tifosi che saltando le transenne, armato di bandiere, fischietti, trombette, si stava slanciando verso il binario.

La folla in attesa ebbe prima un sussulto poi iniziò ad aprirsi per farli passare.

Per un breve istante si determinò un ondeggìo che espose quelli più vicini al binario a diversi problemi di equilibrio, quindi la cosa sembrò ricomporsi per tutti. Meno che per uno: Fiordaliso, era come percorso da una serie di movimenti scomposti, spostava in avanti ed indietro il busto, ruotando in modo opposta entrambe le braccia, la borsa stretta in una mano colpiva qua e là chi gli stava vicino. Aveva ormai perso del tutto l’equilibrio. Massimo intuì che i piedi non avrebbero retto oltre il peso sbilanciato del corpo. Dalla curva un rumore lieve, quasi un soffio, annunciava l’imminente arrivo del treno. Un braccio, il suo, scattò in avanti prima ancora che la volontà decidesse di farlo, la mano si strinse sul colletto del vestito. Dalla curva iniziava a vedersi il muso del treno. Fiordaliso si bloccò esausto, le braccia inerti lungo i fianchi, la testa piegata in avanti. “Un burattino!” pensò “Solo un burattino!”. Fiordaliso si volse lentamente inchiodando gli occhi nei suoi, Massimo vi lesse dapprima stupore poi, lentamente, ma in modo sempre più deciso, vi ritrovò quella luce falsa che tanto odiava. Da sola la mano iniziò ad aprirsi un dito dopo l’altro, prima il mignolo, poi l’anulare, il medio, quindi l’indice si discostò dal pollice. Il colletto del vestito era libero e libero era Fiordaliso di finire sotto il treno.

Massimo si sentì urlare ed assieme a lui urlarono le decine di persone strette sulla linea gialla che delimitava il binario. Il muso del treno aveva ormai agguantato Fiordaliso, prima lo lanciò lontano poi lo riprese quasi al volo, sembrava quasi giocare con quel fardello.

Fiordaliso ruotava nell’aria, poi strisciava lungo la banchina, perdendo brandelli e fiotti di sangue.

Dio, quanto sangue abbiamo addosso! La gente tentava di sottrarsi impaurita e schifata, ma era impossibile. Poi tutto si fermò in uno stridio di freni. Sembrò quasi il ringhio di vittoria della macchina.

Si sentì urtare più e più volte, ma non ci fece molto caso. Era attonito, confuso, stranito. “Che cosa ho fatto!” si gridava dentro a capo basso, avrebbe voluto farlo a voce spiegata, ma sentiva di non averne più la forza.

“Grazie, grazie!!”, “Bravo, meno male che l’ha ripreso! Bravo!”. Chi parlava adesso? Alzò il capo, riaprì gli occhi; attorno a sé la folla, prima indistinta, era divenuta un essere festoso. Molte mani, lo stringevano, lo carezzavano, molte voci lo circondarono con gioia.

Una più festosa delle altre “Grazie, grazie, mi ha salvato!” davanti a sé stava un ometto grigio chiuso in un vestitino dello stesso colore, il viso attraversato in obliquo da un paio di occhialetti dorati attraverso i quali si leggeva uno sguardo smorto come l’abito.

Non era Fiordaliso. Massimo, stravolto, si guardava attorno per capire dove potesse essere finito lui, i suoi pezzi ed il sangue. Tutto quel sangue!

“Che ha si sente male?” disse una voce accanto, “Poveretto, in fondo è stato uno shock molto forte!” ancora una voce, ancora altre voci, tutto aveva preso a girare. “Aria, ho bisogno di aria!” disse prima piano, poi sempre più a voce alta. “Aria, fatelo respirare!”, “Portategli dell’ acqua!”, “Fatelo bere!”, “Voglio uscire, fatemi posto, lasciatemi andare!” disse ancora Massimo cercando di liberarsi da quelle braccia, da quelle mani, da quelle voci. “Voglio andare!”, “Signore, aspetti, sono il controllore, mi dica cosa è successo? Come è andata? Mi dica, signore…devo fare rapporto…Signore!? Che fa? Risponda la  prego…” “Per favore lasciatemi, voglio andare via!” con forza, l’ultima che gli restava, si liberò da quell’avviluppìo. Uscì dal tornello, percorse i pochi metri che lo separavano dall’ uscita, fuori si appoggiò alla balaustra di travertino per riprendere fiato.

Sudava copiosamente, era svuotato, incredulo. Guardò l’ora, l’orologio gli regalava ancora due ore prima della partenza del treno. Due ore! Un’eternità per chi non ha più tempo. Si diresse verso il laghetto, sapeva di trovarci un ristorantino dove poter riprendere le forze.

Ordinò qualcosa, che forse non avrebbe consumato: non ne aveva alcuna voglia. Si fece portare il conto, pagò e lasciò la mancia per il cameriere. Amava fare così quando voleva essere lasciato in pace. Il cameriere capì e si dileguò silenziosamente.

Nel laghetto due canoisti pagaiavano in modo forsennato. Massimo stette un po’ a guardarli poi, perdendo interesse alla cosa, aprì la borsa, estrasse un libro, se ne portava sempre uno dietro, lo aprì. Fece passare le dita sulle pagine stampate, come se leggesse in Braille, quel contatto aveva il potere di rassicurarlo. Due ore! Avrebbe potuto riflettere, pensare per due ore! Solo con se stesso, prima di essere vinto.