Chiese subito l’aspettativa. Per un senso di pudore e per evitare quelle carità pelose che si leggono negli occhi delle persone in questi casi, aveva deciso di sottrarsi ad una curiosità che sentiva malsana. Solo Roberta sapeva, ma era fidata; con lei Massimo aveva liberato un po’ della propria paura.

Con il direttore dell’ufficio, Fiordaliso, invece, era stato molto sulle generali: viaggi, affari, desiderio di staccare un po’ la spina.

Non lo stimava affatto, con quella sua aria di seminarista smesso, gli occhialetti dorati, i vestiti uniformemente virati ad un grigio smorto.

Poi c’era quella voce. Oddio come era monotona, uniforme, priva di passione! Parlava per ore senza dire niente, limitandosi a coprire tutti gli spazi d’ascolto.

“Questo ci prende per sfinimento!” commentava spesso Roberta, aggiungendo subito dopo “Questo parla solo per ascoltarsi!”.

Ripensandoci, gli tornò in mente di quella volta che, alla vigilia del Natale, quando. Fiordaliso aveva annunciato trionfante una colazione di saluto. Andò a finire che, con la scusa degli auguri, li trattenne per tre ore a guardare grafici  ed a ascoltare quella sua voce instancabilmente monotona.

Alla fine, i bomboloni alla crema erano diventati immangiabili ed il caffè si era raffreddato nelle brocche thermos.

Per non smentirsi, quando Massimo aveva inviato la consueta nota per la richiesta dei biglietti di viaggio per l’incontro con i colleghi romani, per metterli a conoscenza degli aspetti più particolari del lavoro che stava lasciando, l’ineffabile Fiordaliso, si era premurato di fargli avere subito una risposta nella quale campeggiava, unico e solo, un punto interrogativo. Quasi volesse sottolineare la sufficienza, il disprezzo quasi, con il quale valutava l’iniziativa. Massimo decise di ignorare il fatto.

Percorso tutto il marciapiede, si ricordò di essere senza biglietti per la metropolitana, con una deviazione si diresse quindi verso la consueta edicola. “Dieci dotto’?” gli chiese affabilmente l’edicolante riconoscendolo, “No, due.” rispose Massimo, “Ah…” disse l’edicolante, lasciando quell’ “Ah…” sospesa, in attesa di una spiegazione. Per evitarla Massimo pagò in fretta dirigendosi subito dopo verso la discesa di scale che lo avrebbero condotto ai treni.

Come d’abitudine, a metà percorso si fermò nel bar sotterraneo, “Le Cafè Noir”, dove faceva sempre colazione e dove tutto era nero: i tavolini, il bancone, le divise dei camerieri. Anche le pietre delle mura romane sulle quali si appoggiava erano nere.

Il luogo era decisamente catacombale, ma a Massimo piaceva quell’atmosfera così particolare. Gli ricordava quel film, “Dal tramonto all’alba” gli sembrava fosse il titolo, nel quale tutti i camerieri, le ballerine, le guardarobiere, nel corso della notte si trasformano in vampiri assetati di sangue.

In cuor suo, per un po’ di tempo, ci aveva sperato che accadesse qualcosa di simile, poi si era limitato ad accontentarsi di prendere un caffè.

“ Aho! Si  state llà, me sa che lo scontrino non ve lo faccio e colazione nun la fate!” la voce rozza di un barista scosse Massimo ed altri quattro o cinque avventori che ormai da qualche minuto sostavano rassegnati di fronte ad una cassa vuota.

Pazientemente si spostarono, pagarono e consumarono un caffè indecente accompagnato da cornetti dal sapore di cartone, poi ognuno riprese la propria strada.

Sulla banchina non c’era molta gente, si vedevano gli effetti degli scioperi nelle scuole, Massimo ne fu contento. Come tutti, con l’esclusione dei borseggiatori, odiava viaggiare in vetture sovraffollate dove corpi appiccicati, fiati, gomiti, borse, zaini, finivano con il rendere invivibile anche un breve tragitto con quelle intimità forzate, né richieste né desiderate.

Vide un posto libero, non se lo lasciò scappare, non era sua normale abitudine ma adesso si sentiva stanco, molto stanco, tanto da non poter reggere alle scosse del convoglio.

Ad una fermata salì una vecchia rom in braccio aveva un bambino piccolo, avanzava lungo la vettura strascicando una gamba e biascicando una litania con una voce alta e stridula “ Prego signori, dare a me piccola cosa, per manciare bambino picolo! Prego io povera dona, chiedo voi picola cosa per bambino picolo! Signori dare a me picola cosa!” Nessuno tra i presenti fece il benché minimo gesto di darle qualcosa. Alla prima fermata utile, sveltamente la zingara scese.

Erano anni che Massimo assisteva a quella sceneggiata, la donna era sempre la stessa, il bambino sempre piccolo allo stesso modo, “ Chissà dove lo ha preso questo!” pensò.

Fuori dalla metropolitana gli rimanevano da percorrere poche centinaia di metri di viale alberato per giungere al centro direzionale. Avanzava scansando accuratamente tutti gli alberi sui quali si affastellavano irrequieti centinaia di storni. Non era difficile individuarli, sia per il baccano che facevano quelle gole instancabili che per l’ampia corona di escrementi che racchiudeva la base di ciascun albero.