Il treno sul quale viaggiava Massimo Scozzari, stava entrando in stazione molto lentamente, quasi timidamente, come se si sentisse colpevole dei 25 minuti di ritardo che aveva accumulato nel percorso tra Firenze e Roma.

Era un procedere per momenti di sosta, ad ognuno dei quali era sfiorato dai treni in uscita dalla stazione, che gli passavano accanto veloci, sicuri, alteri.

Anche le persone che si intravedevano dai finestrini riflettevano uno stato d’animo molto diverso, più sereno, più disponibile, rispetto a quello, ormai prossimo alla solenne incazzatura, dei passeggeri che viaggiavano con Massimo.

Quell’andare malfermo ed insicuro, poi, aveva finito con il renderli ancora più smaniosi e pronti a mangiarsi vivo il primo ferroviere che si fosse trovato a passare per i corridoi. Forse per questo, durante tutto il viaggio non si era visto nessuno, nemmeno il controllore.

Racchiuso nel suo dormiveglia, al quale si abbandonava sempre durante i viaggi, apparentemente tranquillo il nostro iniziava l’ultima missione.

La missione! La prima volta che aveva detto in casa che l’indomani sarebbe partito per una missione, sua madre con occhi impauriti gli aveva chiesto: “Non sarà mica pericoloso? E se ti sparano?”. In quel periodo James Bond e le sue impossibili avventure riempivano puntualmente le sale dei cinema ed i sogni della gente, erano state perciò vane le rassicurazioni con le quali aveva cercato di tranquillizzarla, spiegando che tutto il pericolo stava nel dover partecipare ad incontri di lavoro, perlopiù molto noiosi. Con gli amici no, non aveva mai approfondito la cosa, si limitava al solo annuncio: “Stasera devo andare a letto presto, domani sono in missione…”, lasciando nei punti di sospensione ogni altro significato. Anche con le ragazze faceva allo stesso modo, solo che con loro, approfittando della curiosità che sapeva solleticare, non andava via molto presto: capitava sempre quella disponibile ad accompagnare la partenza dell’invitto eroe.

Ripensandoci, ne sorrideva ancora.

Una frenata dal senso più prolungato e definitivo, lo scosse da quel torpore, sentì subito lungo un polpaccio qualcosa di caldo ed umidiccio: era l’ombrello da viaggio ancora bagnato che, con le sue ali di pipistrello, era finito appoggiato, avvolto quasi, alla gamba di Massimo.

Davanti a lui vide alzarsi un lungagnone nero con la testa rasata, lo sguardo stralunato, come sorpreso della sospirata fine del viaggio; il movimento dinoccolato del corpo ricordò a Massimo quello di un enorme lombrico che cerchi disperatamente la propria mela.

“ Pover’anima, sembra aver perso ogni speranza!” si trovò a pensare Massimo.

Gli piaceva guardare le persone, studiarle, attribuire loro un’ipotesi di vita e su quella fantasticarci un po’.

C’era quel tipo grossissimo, con un cappello enorme, uno Stetson forse, il cappotto di due taglie sotto, che con le enormi cosce che si ostacolavano a vicenda,  camminava a sussulti, sembrava ballare una conga. Massimo se lo immaginava rotolare rantolante sul palcoscenico di un avanspettacolo, circondato dalle “gherles” come dicevano i frequentatori di quel cinemino di piazza Beccaria, tanti, forse troppi, anni fa.

E poi quella panterona leopardata, una cinquantenne con bocca enorme naso sprezzante, occhio bistrato, sguardo a gatto che sta per mangiare un topo, seno in evidenza, pancia compressa in qualche guepière rinforzata; guardandola gli sembrava quasi di sentirla parlare: “ Dì ben ragazzuolo! Mo’ che fai guardi? Mo’ è tutta roba buona, prima scelta, soccmel! “ 

E parlò, infatti: “A’ Na’! A’ Nandoo! An vedi ‘sto impunito! A’ Na’! E svejete, che semo arivati!!!”. Decisamente questa volta non ci aveva dato.

Uno dopo l’altro furono tutti in piedi, urtandosi con i bagagli, cercando di infilarsi i cappotti, consumando gli ultimi moccoli sui ritardi delle ferrovie.

Anche la discesa non fu facile, prima dovettero convincere quelli che cercavano di salire, che le due operazioni condotte assieme non erano molto compatibili. Quindi sciamarono frettolosamente, quasi volessero recuperare i minuti di ritardo percorrendo a passo sostenuto le poche centinaia di metri del marciapiede che correva lungo il binario.

Massimo Scozzari invece, camminava lentamente, quasi che la riottosità del treno gli si fosse trasferita addosso. Non aveva fretta quel giorno, era la sua ultima missione, aveva deciso di prendersela comoda.

Ultima missione. Poi? Poi basta, forse. Di fronte a sé aveva sei mesi di aspettativa, il dopo non gli era chiaro.

“Non è niente” gli aveva detto il primo medico, “Occorrono accertamenti” aveva comandato il secondo, “Dobbiamo operare” aveva sentenziato il terzo.

Così, in tre battute, Massimo aveva visto il proprio futuro appartenere ad altri.