“Elementare, Watson!”. Ma se il romanzo è Il mastino dei Baskerville, scritto da Arthur Conan Doyle nel 1901, non è così semplice. Perché Sherlock Holmes potrebbe essere un detective ansioso di risolvere un caso, il suo amico Watson un osservatore fazioso e l’omicidio, in realtà, un incidente. Così Pierre Bayard nel saggio Il caso del mastino dei Baskerville (pubblicato da Excelsior 1881) rilegge il racconto dell’autore inglese. E rivela nuovi aspetti fino a scoprire un altro assassino nascosto tra le pagine della storia ambientata nella brughiera inglese.
La trama: Sir Charles Baskerville muore e lascia una fortuna in eredità. Ma per James Mortimer, medico e amico dell’aristocratico inglese, è un omicidio: anzi, ricorda la leggenda di un cane mostruoso che aveva già ucciso un antenato dei Baskerville. Holmes si lancia sulla pista e parte per la brughiera di Dartmoor. Il colpevole non sarà catturato, ma scomparirà negli acquitrini della zona. Bayard, però, svela che il metodo d’indagine polizesca del detective è tutt’altro che infallibile: indizi raccolti in modo arbitrario, medie statistiche confuse con leggi scientifiche e la sistematica sottovalutazione dovuta al punto di vista del narratore. Altro che pura oggettività e fredda razionalità. Così si riapre (sia pure pure per gioco) un caso apparentemente risolto.
La ricerca dell’assassino, però, è un espediente. Che porta il lettore sulle tracce del “complesso di Holmes”. Un rapporto “patologico tra un abitante del mondo reale e un abitante del mondo fantastico”. Una sorta di cortocircuito tra pubblico, autore e personaggio. Bayard ne ricorda due esempi. Da una lato Arthur Conan Doyle che vuole allontanarsi da un personaggio ormai “troppo ingombrante” per dedicarsi a romanzi storici e racconti di fantascienza: così decreta la fine dell’investigatore per mano del dottor Moriarty ne Il problema finale (e poi lo farà tornare per risolvere altri casi). Dall’altro il complesso è diventato visibile alla fine del secolo scorso con la reazione di autentica disperazione dei lettori alla notizia della morte del detective, come se Sherlock Holmes fosse una persona reale (a Londra, comunque, è possibile visitare lo studio dell’investigatore al 221b di Baker Street). Insomma, una questione che, a ben vedere, va ben oltre i romanzi di Conan Doyle e riguarda quel vasto territorio di confine tra lettore e opera.
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