Steve Mosby, giovane autore inglese di Leeds, è ormai al suo terzo libro pubblicato in patria. Dopo “The Third person” del 2003  e “The cutting crew” del 2005, è di quest’anno il sorprendente “50/50 Killer”. E proprio quest’ultimo romanzo segna l’ingresso di Mosby anche in Italia, grazie alle Edizioni Nord che hanno deciso di acquistarne i diritti e di tradurlo.

Non farlo sarebbe stato un grosso peccato. Perché l’autore sprizza talento e originalità,  il libro è forte come un pugno nello stomaco e non concede nulla a cui aggrapparsi.

Toglie il sonno. Cosa si può volere di più da un thriller?

La trama è presto detta. Un serial killer si annida nelle soffitte, spia le vite di coppie felici. Finché le sequestra nella loro stessa casa, le lega e le sevizia in modo crudele, per una notte intera. Le vittime vengono brutalizzate nel corpo e nella mente, e quando sono convinte di essere ormai alla fine, dà loro la possibilità di scegliere, chi fra loro due potrà vivere e chi dovrà morire…

Non vuole solo colpire le persone, ma annientarle nello spirito e nella mente, distruggere ciò che credono essere il loro bene più grande: l’amore.

Ma l’amore non resiste e soccombe davanti all’istinto di sopravvivenza. Sempre.

A dare  la caccia al killer c’è un poliziotto, John Mercer, con

la sua squadra. Il 50/50 killer ha segnato la sua vita, gli ha ucciso un collega, l’ha fatto sprofondare nella depressione. Quando un nuovo caso si profila all’orizzonte la battaglia diventerà devastante e la storia del killer si intreccerà in maniera pericolosa con la vita di Mark Nelson, giovane poliziotto ultimo arrivato nella squadra di Mercer. La soluzione arriverà –davvero- solo nell’ultima pagina di un libro al cardiopalma. 

D - In questo romanzo si nota, da parte Sua, una grande padronanza dell’elemento horror, inserito però in un giallo classico. Lo definirei un romanzo “trasversale ai generi”…

R –  Sì, grazie, mi piace il termine “trasversale” e spero proprio che

il mio libro lo sia. Il genere horror, ma non puro, mi ha sempre interessato. Soprattutto ho amato molto Stephen King e Dean Koontz, perché mi piaceva e mi piace tuttora il modo che questi autori avevano trovato per scrivere dei libri che in realtà andavano oltre il puro genere e riuscivano ad essere anche “altro”. Libri che miravano ad avere elementi di fantascienza, di thriller, di horror, tutti fusi assieme. Ne ho letti tanti, di romanzi simili,  in gioventù,  e credo che mi abbiano molto influenzato.

Penso che ci siano sempre più  elementi di horror nella maggior parte dei libri che potremmo definire appartenenti alla categoria del “giallo classico”. E penso che l’horror sia entrato nel giallo proprio con le figure dei serial killer. Se tu prendi come elemento centrale un omicida seriale è inevitabile cadere nell’orrore. E molti libri in circo lazione oggi hanno queste caratteristiche, di lotta contro il mostro, di tentativi di annientamento del Male. Il serial killer, nella letteratura contemporanea, è un po’ quello che erano i vampiri qualche anno fa.

 

D – Ha fatto fatica a raggiungere un certo equilibrio, per non far mai scadere il libro nella totale brutalità del Male?

R – No, devo dire che non ho faticato in modo eccessivo. Ho cercato di creare delle atmosfere, più che calcare la mano sui particolari.

Certo, la violenza c’è, ma oserei dire che è più il sottofondo cupo che genera paura.

 

D - Da dove ha tratto lo spunto per questo libro? Qual è la sua genesi?

R – Posso dire che l’idea è nata una decina di anni fa. Ero in vacanza in Italia con la mia ragazza di allora in una località di mare e mi sono trovato in un episodio simile a quello che descrivo nel libro e che capita a Mark. Ci siamo trovati in mare, a nuotare, e ad un certo punto eravamo in grande difficoltà. C’era una forte corrente, non riuscivamo a tornare; io ho raggiunto la riva per primo, ero spaventatissimo e ho dovuto prendere una decisione. Da un lato volevo fortemente tornare in acqua e salvare la mia ragazza, dall’altra non riuscivo a farlo. Ero incollato alla terraferma. Poi tutto è andato bene, lei è riuscita a venirne fuori. Ma questo episodio mi ha segnato. Mi ha fatto pensare a tutte quelle volte che noi, con incredibile leggerezza, diciamo a qualcuno che l’amiamo e “non potrei vivere senza di te” e “darei la mia vita per te”. In verità sappiamo che molto raramente una persona si trova in una situazione in cui gli viene richiesto di dimostrare che quelle dichiarazioni sono vere e sincere e di agire di conseguenza. Ma quando avviene, non è tutto facile come sembra. Mi è venuta quindi l’idea di lavorare attorno a un personaggio che rappresentasse una forza che mette altre persone di fronte alla necessità di prendere questa decisione.

Salvarsi, o dare la vita per la persona che si ama.

D – E’ cosciente del fatto che il Suo libro, oltre a far passare notti insonni ai lettori rischia anche che gli stessi comincino a interrogarsi sui loro rapporti, per esempio, di coppia, e a farsi domande poco simpatiche?; -)

R – Oh, sì! Mi piace l’idea di portare i miei lettori a farsi delle domande al riguardo… volevo creare un sentimento anche di inquietudine, di messa in discussione di certezze. Volevo scrivere un libro drammatico e coinvolgente, avvincente: ma questo non mi è bastato. Io voglio creare con il lettore un rapporto di livello diverso. Voglio portare le persone a chiedersi “cosa farei io, al posto di questi personaggi?”. Voglio causare una messa in discussione di sé stessi e dei proprii atteggiamenti.

E’ un dilemma spaventoso, quello che propongo, e spero che non capiti mai a persone in carne ed ossa un’esperienza simile a quella del mio libro. Però vede, parlando più in generale, spesso ci troviamo all’interno di un rapporto di coppia nel quale o fai del male a te stesso o fai del male all’altro. E la scelta è ciò di cui volevo parlare.

D - Non ha dato ambientazione reale al romanzo. E’ una Sua scelta precisa? Non crede che questo tolga qualcosa a “50/50 killer”, e ai lettori che tanto amano riconoscere o addirittura ricercare i luoghi descritti nei libri che amano?

R – Sì, è stata una mia scelta ben ponderata. So che molti scrittori, e soprattutto quelli di genere, sono attaccati a una ambientazione, a una città ben precisa. Ian Rankin, per esempio, che mi piace molto, o James Lee Burke, ma potrei citarne innumerevoli altri. Scrivono di un particolare posto e non se ne discostano troppo. A me non piace fare questo. Non ho un posto privilegiato dove ambientare le mie storie, e forse questo si può ricollegare a ciò che dicevo prima, e quindi al mio inizio come appassionato lettore di romanzi horror e romanzi fantasy. Dunque alla preferenza nel creare scenari e paesaggi solo miei, non davvero esistenti ma che si adattano perfettamente alle storie. Io non scrivo di problemi sociali, ma di problemi personali. Quindi non ho bisogno di una località precisa e reale dei cui problemi discutere. Mi piace creare un paesaggio e farne un protagonista. In “50/50 killer”, per esempio, c’è un bosco. So che questo bosco ha creato problemi ad alcuni recensori e anche ad alcuni lettori,  che hanno cercato in mille modi di rintracciarlo, di capire dove fosse. Non esiste un bosco del genere in Inghilterra, perché io l’ho creato apposta, così com’è, un posto fiabesco alla Cappuccetto Rosso. Mi serviva un luogo siffatto, per descrivere il crollo di un sentimento come l’amore, che ci hanno sempre descritto come un qualcosa, appunto, di fiabesco. Volevo creare un’ambientazione che riportasse il lettore a un tipo di foresta infantile e che incute timore. Per la mia scrittura una città precisa sarebbe, quindi, un ostacolo. Perché mi costringerebbe a concentrarmi troppo su qualcosa di molto aderente alla realtà.

D - Il romanzo ha moltissimi personaggi, c’è un colpo di scena clamoroso alla fine. E un ritmo preciso da rispettare, scandito dall’orologio. Ma Lei non perde mai le redini della narrazione. Aveva chiaro in mente fin dall’inizio tutto lo svolgimento della storia e l’apparizione di tutti i personaggi o il libro è andato avanti di giorno in giorno magari spingendo

la a modificare le Sue intenzioni di partenza?

R – Beh, direi che è stata tutta un’evoluzione. “50/50 Killer” è cominciato con un racconto, che ho scritto molti e molti anni fa, e che era di struttura semplicissima. C’era solo una coppia, in una stanza da letto, con

il killer. Ed era un racconto quasi esclusivamente horror. Ma diciamo che la base principale di tutta la storia c’era già. Poi ho preso questo racconto e l’ho ampliato, ne ho fatto una novella e da lì ho avuto l’idea di portarlo ad essere un romanzo. Ho parlato di questo progetto col mio editor, che mi ha suggerito di inserire la Polizia, come elemento importante della storia. In modo da creare anche una situazione, in un certo senso,  di “assedio”, che poteva risultaere interessante. All’inizio di questa indagine  avevo quindi il serial killer, la Polizia, la coppia torturata. Avevo poi il bosco, e l’orologio che segna i minuti che mancano all’alba. Tutti gli altri personaggi non li avevo chiari in mente, ma possedevo un’idea generale su quello che doveva essere lo svolgimento. Mi ero posto dei determinati punti base, delle pietre miliari all’interno della storia che dovevano necessariamente essere raggiunte. Però nel

la prima stesura tutti questi elementi erano vaghi e indistinti, alcuni personaggi non c’erano ancora. James Reardon, per esempio, che è un personaggio centrale e determinante non c’era, è venuto dopo. E’ entrato nel libro solo nell’ultima stesura. Posso quindi tranqu

il lamente dire che “50/50 killer” è stato davvero una corsa a tappe!