Avevo già letto il libro che sto per presentarvi. Un capolavoro assoluto della letteratura gialla o poliziesca che dir si voglia. Ma non ricordavo tutti i particolari e solo in parte la suggestione emotiva che mi aveva procurato al primo impatto. Ho deciso, perciò, di rileggere L’enigma dell’Alfiere di S.S.Van Dine, Mondadori 2007.
“New York, ruggenti anni venti. Un sinistro, imprevedibile assassino si macchia di una serie efferati delitti ispirandosi a una filastrocca infantile. I principali sospettati sono tutti eminenti personalità della metropoli. Spetterà a Philo Vance, esteta raffinato e investigatore dalla mente labirintica, affrontare un genio criminale tanto letale quanto perverso”.
Ma come c’entrano gli scacchi con questa storia? C’entrano, eccome, perché l’assassino si firma con il nomignolo di “Bishop” che in inglese vuole dire sia “Vescovo” che “Alfiere”, uno dei pezzi del gioco degli scacchi. E proprio un Alfiere nero viene lasciato sul luogo del delitto. E alcuni dei sospettati, naturalmente, conoscono questo giuoco. Ce n’è uno, Pardee, che addirittura ha inventato un gambetto (un modo di iniziare la partita con un sacrificio per lo più di pedone) che porta il suo nome e che affronta anche il mitico Rubinstein nel celebre Manhattan Chess Club. Sembra proprio lui l’assassino quando viene trovato ucciso con un colpo di pistola e la faccenda si complica.
Ma più che l’architettura complessiva della trama con il relativo colpo finale a sorpresa (un po’ troppo a sorpresa a dir la verità) qui chi colpisce davvero, chi attira l’attenzione del lettore è il nostro Philo Vance, l’aristocratico, il colto e mellifluo Philo Vance intorno al quale ruotano tutti gli altri personaggi. Costretto ad interrompere “la traduzione omogenea dei principali frammenti di Menandro scoperti nei papiri egizi agli inizi del secolo” per seguire questo caso. E chi già aveva conosciuto il Nostro attraverso La strana morte del signor Benson e La canarina assassinata (ce n’è anche un altro di cui non ricordo il titolo) si può ben immaginare il sacrificio a cui è costretto e di conseguenza l’importanza della storia a cui dovrà assistere e partecipare attivamente. Che gettò l’intera città di New York nel panico più assoluto come nella Londra di Jack lo Squartatore del 1888, o nella Hannover del lupo mannaro Harmann del 1923, opportunamente sottolineato in una nota del libro dallo stesso narratore, l’amico e consulente legale Van Dine. Tanto per aumentare la tensione e attirare ancor più l’interesse del lettore. Ed anche questa volta la scena è tutta per lui, per questo dandy americano, quasi copia perfetta di lord Wimsey della Sayers, che parla e veste in maniera elegante e forbita. Gli anni della loro nascita letteraria sono quasi gli stessi. Peter Wimsey nasce nel 1923 e Philo Vance (interpretato magistralmente alla televisione da Giorgio Albertazzi) tre anni dopo con “La morte del signor Benson” già citato. Dalla penna di Willard Huntington Wright, giornalista ecritico d’arte americano che usò lo pseudonimo di S.S.Van Dine. Quasi un destino. Willard si ammala di tubercolosi e deve essere ricoverato per due anni in sanatorio. Non sapendo cosa fare si mette a leggere romanzi polizieschi di ogni tipo tanto da diventarne un vero esperto. Quando esce dal sanatorio incomincia a scrivere e crea questo famoso personaggio.
Sarò pure cinico come lettore ma in questo caso, (solo in questo caso, per carità) santa tubercolosi!
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