Dico la verità. Quando ho letto l’introduzione di Andrea G.Pinketts a Il nibbio dell’Uccellina di Giorgio Diaz, Arpanet editore 2004, mi è venuto voglia di rispedirlo al mittente. Cosa voleva di più l’autore dal sottoscritto dopo una firma tanto prestigiosa? Poi ho pensato che se desiderava anche un mio giudizio dopotutto dovevo esserne contento. Si vede che questa rubrica nata da poco qualcosa di buono lo tira fuori. Me lo sono preso e me lo sono portato all’aeroporto di Ampugnano dove cammino e leggo, leggo e cammino. Se non mi rompono gli zibidei e se non mi fermo qualche volta a tirare i sassi agli alberi come facevo da ragazzo. Il che toglierà un po’ di lustro a questa chiacchierata. Ma c’ho dentro qualcosa che mi rode sin da quando sono nato e ogni sasso è come una pedata nel culo a fantasmi più o meno reali del presente e del passato.
Dunque mi sono messo a leggerlo. L’ispettore Eugenio Curto detto Uge, cinquant’anni suonati, sposato due volte, se la deve vedere con un assassino che prima uccide con delle belle botte in testa e poi annega le sue vittime dai gusti sessuali diversi dal solito (si fa per dire perché oggi la cosa si sta espandendo a macchia d’olio ed è il normale a sembrare diverso). Come Giovancarlo Straziotis prima intruppato coi “radicali liberi” e poi con “la razzaccia sua de destra”, ed un altro di cui non ricordo il nome. Tutti e due froci, insomma, per usare il linguaggio del libro. Infine spedisce lettere alla polizia firmandosi “Il Nibbio dell’Uccellina” da cui il titolo.
Altri particolari sul nostro Uge: di famiglia comunista, comunista pure lui, attirato dalle sottane ma sfortunato con le donne così come sfortunato nella pesca, buongustaio (mi ricordo a braccio una zuppa di funghi, cignale alla cacciatora e ceci, e poi cannelloni ripieni con la ricotta, conigliolo fritto colli zucchini, la torta di ricotta. Tutta roba leggera…), fuma il toscano, ha una bella storia con una giornalista, razzista (di facciata), ce l’ha coi turisti che vengono a buttare all’aria la costa maremmana (in particolare coi “romanacci”), coi guardoni e coi finocchi (esilarante l’ominide Alberensis), coi giornali che inventano tutto, con il computer che toglie il gusto di un buon libro, cogli avvocati razzaccia infame ecc… Non ha troppe ambizioni, la sua è una vita nascosta “’nquattata”, gli sarebbe piaciuto fare lo scrittore, sprezzante e silenzioso capisce che ci sono uomini puri e onesti come il capitano Cinto, innamorato della Francia dove era stato con la prima moglie livornese, poi aveva preso una fiorentina più giovane, e poi ci sono altri personaggi interessanti che scoprirete da voi.
Ma quel che conta di più qui non è tanto la vicenda in se stessa (carina con un finale commovente), quanto il linguaggio con cui essa viene proposta: il vernacolo livornese. Ora come Tinto non se ne intendeva di tetti ritinti, io non me ne intendo proprio di dialetti. Figuriamoci se si casca nel vernacolo. Non vorrei dire una bischerata ma a me questo vernacolo livornese pare un po’ bizzarro, un pò “particolare”, tutto infiorettato di francesismi, latinismi, meridionalismi, con andamenti sintattici all’ottocentesca (imperocché) e qualche accenno (ho le traveggole?) più o meno velato alla prosa boccaccesca. Insomma un vernacolo originale proprio dell’autore che attira e stuzzica. Talvolta si cade nel bozzetto ma non si può stare sempre in piedi. Che cosa ne penso? Bono parecchio per noi toscani. Un po’ meno, credo, per tutti gli altri.
Sito dell’autore www.libridiscacchi.135.it
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