Si viaggia sul sicuro e si propone subito al pubblico un ottimo motivo per poter apprezzare una reintreè in grande stile con la riduzione per le scene di Endless night, ma al tempo stesso si rischia molto. Perché si tratta davvero di un’opera decisamente difficile da riproporre in chiave teatrale. Nella mia fine è il mio principio presso il Teatro Stabile del Giallo di Roma, presenta panorami mozzafiato, infide scogliere, sentieri nel bosco, precipizi scoscesi e una zona campestre chiamata Campo degli Zingari, apparentemente colpita da una maledizione. Il giovane Michael Rogers convive con un sogno che sembra irrealizzabile. Vorrebbe acquistare proprio quel pezzo di terra, incurante della maledizione, per costruirci la casa dei suoi desideri. Se non fosse per il fatto che, oltre che ambizioso, è disperatamente povero, sarebbe di certo un magnifico progetto, anche se destinato a rimanere irrealizzabile. Interviene però in suo aiuto il destino, la fanciulla di cui è innamorato, come si scopre ben presto, è una ricchissima ereditiera, anzi è la donna più ricca d’America. Così ogni problema sembra risolto, ma non del tutto. La villa, magnifica, viene costruita da un valente architetto, il sogno sembra coronato, ma il Campo degli Zingari, ancora gravato dalla sua pessima fama, non si smentisce… e si verifica un delitto.
E’ estremamente interessante vedere come è stato ridotto per il palcoscenico quello che è forse uno dei romanzi più particolari e anomali di Agatha Christie. Un lungo flash back raccontato in prima persona, un mistero senza investigazione, un delitto la cui soluzione verrà rivelata nell’arco di una sola scena in un finale incalzante dal sapore avvincente. Un giallo psicologico e introspettivo, forse l’unico di questo genere della Christie, ma con il consueto colpo di scena a cui la regina del giallo non ha mai saputo rinunciare.
E il risultato è sbalorditivo per questa rilettura in chiave moderna, le incursioni dei parenti e degli avvoltoi che calano sull’isolamento dei novelli sposi, sono rese attraverso intuizioni quasi sperimentali, ma dal sapore magico. Video chiamate attraverso le quali pubblico e attori guardano, come una sola persona, gli interlocutori parlare, o meglio, recitare. Il lungo monologo che inframmezza le scene, invece di essere reso tramite la classica voce fuoricampo, viene proposto per mezzo di un singolare videotape, in cui il protagonista si confessa e rivive la sua storia. La casa, il campo degli Zingari, il bosco, il precipizio non esistono se non nella fantasia dello spettatore. Proprio come in un libro lo spettatore è lasciato libero di riprodursi la sua realtà immaginifica, di visualizzare paesaggi ed atmosfere così come crede o sente di percepirli, e tutto si colora d’incanto.
Quando gli attori ammirano la villa, in realtà è noi del pubblico che stanno guardando, quando noi guardiamo verso la scogliera sono loro, gli attori, quelli che stiamo osservando, in questo mutevole gioco di specchi, tra sipari appena accennati, schermi semitrasparenti animati dalle luci, veli di garza dietro i quali gli attori si muovono come ombre cinesi, video proiezioni che si alternano alla scena aperta, l’immedesimazione dello spettatore è totale e completa.
Ridurre un romanzo come questo per le scene è stata una sfida difficile, ma sicuramente apprezzabile, per un risultato che non sarebbe di certo dispiaciuto nemmeno alla grande Agatha, che tanto amava il teatro.
Tutti parimenti bravi gli attori, un vibrante Nino D’Agata che domina la scena nel ruolo dell’architetto nevrotico Rudolf Santorix, una giovanissima ma interessante Linda Manganelli a tratti quasi elfica e diafana nelle vesti di Ellie, notevolissima Maria D’Incoronato che porta con disinvoltura sulla scena la figura di una madre d’altri tempi, premurosa e severa, dura e inflessibile, ma con un velo di dolcezza sullo sfondo, una madre vera, carica di soffusa nostalgia.
Paola Mignieco rende perfettamente la caratterizzazione di una Claudia Hardcastle a tratti fragile a tratti ambigua mentre Alberto Caneva si cala con convinzione nei panni dell’avvocato Lippincott, perfettamente britannico, imperturbabile, maliardo e affascinante, in un’interpretazione che, a sprazzi, ricorda un Richard Gere di stampo teatrale, se mai ne è esistito uno.
Ma in assoluto, e non ce ne vogliamo gli altri attori, ha brillato per incisività Patrizio Cigliano che ha costruito un Michael Rogers in chiave moderna, tormentato, dolente, scanzonato ed irridente, arrivista e ambizioso, confuso e brutale, passionale e romantico al tempo stesso. Un duro dai piedi d’argilla, un bullo di periferia dei tempi nostri, un giovane accecato dai facili successi, dalle scorciatoie tutte in discesa, che ha ben rappresentato quanto recitava Virgilio, ricordando a tutti noi che “le porte dell’inferno sono aperte giorno e notte, dolce è la discesa e facili le rotte”.
Una menzione speciale infine per Anna Masullo capace di reinventare una Greta Andersen maliarda ed androgina, sensuale e dura, una vera dark lady del palcoscenico che richiama ancora una volta, come per Caneva, paragoni di stampo filmico e cinematografico.
E se si riesce a paragonare il teatro a un libro o alla visione di un film, allora ben vengano la sperimentazione, la commistione dei generi, le scenografie ardite ed essenziali e le innovazioni tecniche, perché quando c’è dietro la passione, il risultato è, da sempre, l’unica cosa che conti davvero.
Dopo questa proposta più che convincente, che di fatto ha rappresentato al tempo stesso una sfida e una vittoria, il cartellone della stagione proseguirà con Ucciderò Sherlock Holmes e Gli Insospettabili.
Il Teatro Stabile del Giallo, nato nel lontano 1986, è dunque tornato per continuare a rappresentare un sicuro punto di riferimento per tutti gli appassionati, i fedelissimi e i neofiti, che punta alla qualità con una programmazione sempre stimolante e piena di innovazioni. Per non parlare delle spaghettate informali nel foyer, un momento di convivialità davvero speciale, un attimo di pausa altamente apprezzabile, offerto dal Teatro.
Un momento più unico che raro in cui si può gustare primi piatti caldi allestiti al momento e vino dei castelli, mischiando le chiacchiere da cocktail party alle nuove conoscenze, scambiandosi pareri, conoscendo di persona gli attori che partecipano mescolandosi alla folla. Ma una buona occasione anche per curiosare dietro le quinte e cercare di capire cosa c’è, davvero dietro al teatro, dietro a quella splendida magia che ancora oggi, come in una favola, continua a stregarci e a catturarci, che ci fa volare con le ali della fantasia e contribuisce a farci tornare a casa un poco più sereni.
Impossibile allora dimenticarsi di un luogo così speciale, dove si respira aria di casa e dove tutti, attori, scenografi e attrezzisti, sembrano fusi davvero in un’unica grande famiglia, come quando gli attori recitavano nelle piazze e le compagnie vagavano per le città.
Se antico e moderno si mischiano, se tecnologia, videotape ed effetti speciali nonostante tutto ancora richiamano alla memoria il fascino magico dei vecchi saltimbanchi, allora, si conferma che è possibile, se davvero si vuole, coniugare l’arte con il divertimento e ottenere, sempre, un raro cocktail di passione ed impegno, calore e sentimento, sudore e sangue, emozioni e parole, in una unica e sola parola: TEATRO.
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