Questa mia rubrica deve essere aperta, spigliata, libera. E personale. Soprattutto personale. Farò un excursus leggero (non digerisco gli articoli a mattone) su personaggi conosciuti e meno conosciuti, “antichi” e “moderni” affidandomi alla lettura e alla memoria. Con un pizzico di ironia e autoironia che non guasta mai. Nel momento in cui scrivo ho sessanta anni e ne ho visti di libri passare sotto i ponti! Anche per lavoro, per il fatto di essere stato un insegnante di Materie letterarie.
La passione per il giallo l’ho avuta sin da piccolo quando, frugando per caso in una cantina di un mio cugino, mi ritrovai fra le mani una avventura di Perry Mason pubblicata dalla Mondadori sulla cui copertina campeggiava il volto del noto attore americano Raymond Burr (molti lo ricorderanno come uno dei protagonisti de La finestra sul cortile di Hitchcock, quello che ha fatto la felicità di tanti depressi mariti tagliando a pezzi la moglie) che è stato uno degli interpreti principali, se non l’unico, di questo popolare avvocato creato dalla penna di Erle Stanley Gardner. Da allora ho cominciato a fare incetta di gialli appassionandomi soprattutto al tipico giallo di scuola inglese della Christie basato più sul lavorio delle cellule grigie, come direbbe Poirot, che non sull’azione come il giallo americano alla Chandler, alla Hammett o alla Spillane, tanto per intenderci, autore quest’ultimo al quale si è ispirato il nostro Faletti con il suo primo libro di successo (beato lui) Io uccido dove si possono trovare alcuni riferimenti al nostro giuoco.
Per prima cosa scrolliamoci di dosso i grandi miti. Parlo di Sherlock Holmes e compagnia bella. Detta così sembra quasi una offesa verso di loro. E invece trattasi di un modo per giustificare cose dette e ridette. Il re degli investigatori nasce dalla penna di Arthur Conan Doyle. Era un medico che scriveva per passatempo. La sua prima avventura Uno studio in rosso fu un mezzo fiasco. Poi, come succede talvolta nella vita, la Fortuna ci mette lo zampino. Un editore americano si innamora del personaggio e chiede al dottore un romanzo per la sua rivista. Il segno dei quattro fu subito un grande successo. Che gli procurò una certa paranoia. Nel senso che questo pover’uomo non ne poteva più di trovarsi tra i piedi (leggi cervello) il nostro Holmes. Come personaggio letterario, s’intende. Cercò perfino di crearne un altro, un certo Etienne Gerard, un brigadiere un po’ fanfarone dell’armata napoleonica, ma non ci fu verso. Tentò di farlo morire nelle cascate di Reichenbach ma fu costretto a “resuscitarlo” tanto i lettori erano affezionati al dinoccolato investigatore. Il quale dinoccolato investigatore rivivrà nelle mani di una marea di fans che verranno dopo e che continuano ancora oggi a stuzzicarlo. Ho sotto gli occhi, per esempio, due recensioni: una del libro di Mitch Cullin Un impercettibile trucco della mente, pubblicato dalle edizioni Giano nel 2005, in cui il Nostro si ritrova “umanizzato”, vecchio e solo, pieno di tristi ricordi. Si occupa di apicoltura, miele, polline e pappa reale. L’altra del romanzo di Michael Chabanon Soluzione finale e la storia è sempre la stessa nel senso che Holmes vive beato fra le sue api finché un giorno gli capita un bambino muto con un pappagallo che parla anche per lui. Quando l’animale viene rapito ecco rinascere l’Investigatore per antonomasia. Sto leggendo anche L’allieva e l’apicultore di Laurie R. King pubblicato da Neri Pozza nel 2006, proprio nel momento in cui scrivo. Anche se, ad onor del vero, trattasi della traduzione di “The Beekeeper’s Apprentice” del 1994. Questa volta Holmes se ne è andato via dal suo appartamento al 221B di Baker Street per ritrovarsi lungo la costa del Sussex a studiare…Indovinate un po’? Sempre le regine del miele. D’altra parte se gli autori si fissano non c’è niente da fare. Siamo nel 1925, ha circa cinquanta anni, “emaciato e brizzolato” con un “antiquato pastrano di tweed e scarpe decorose” quando impatta, è proprio il caso di dirlo, con Mary Russell, una ragazzina quindicenne “allampanata e occhialuta” che gli pesta i piedi. E’ l’inizio di un vero e proprio sodalizio fra il Maestro e l’allieva. Insieme cercheranno di risolvere il caso di una febbre misteriosa che colpisce il proprietario di una villa e dovranno vedersela con un assassino che vuole attentare anche alle loro vite. Per ora sono arrivato alla fine del primo capitolo e Holmes ha già capito vita, morte e miracoli della ragazza al primo sguardo. Che è mancina, che sua madre è una ebrea di seconda generazione, che i genitori sono morti e che vive con un parente avaro che non la nutre a sufficienza. Mary, però, in fatto di deduzioni gli tiene testa e non si presenta certo sotto le vesti di quel tontolone del dottor Watson. Gliene spiattella qualcuna che lo colpisce: lui viene da una famiglia piuttosto ricca “anche se i suoi rapporti con i genitori non sono mai stati completamente felici”, non fuma più sigarette mentre continua a suonare il violino, usa ancora l’arte del travestimento probabilmente per uno spionaggio ai danni del Kaiser. Ed infine che se ne è andato via da Londra “per sfuggire alla sgradevole sensazione di essere circondato da menti inferiori…”. Scommetto che ci saranno faville fra loro. Ho lasciato il compito di finire di leggerlo a mio figlio Riccardo. Il libro è un malloppone con più di quattrocento pagine che mette paura solo a guardarlo. Non interessato a far rivivere il genio antipaticuccio del crimine Julian Barnes in Arthur e George ha tirato fuori dal cilindro lo stesso Conan Doyle nelle vesti di detective e Steve Hockensmith ha scritto il libro “Holmes on the range” nel quale i personaggi “invocano e celebrano il suo spirito quasi ad ogni pagina”.
Ma ritorniamo a noi. Il cognome Holmes fu suggerito al suo autore dal poeta americano Oliver Wendell Holmes del quale aveva grande stima. Il primo nome che gli venne in testa fu Sherrinford, cambiato in Sherlock un po’ per caso, perché il primo gli sembrava troppo lungo. Sherlock Holmes lo conosciamo tutti: alto, slanciato, occhi acuti, naso un po’ aquilino. Mi ricorda il grande giocatore di scacchi americano Frank Marshalle questo me lo rende più sopportabile. Inoltre fuma la pipa, suona il violino, porta sempre con sé una lente di ingrandimento, indossa un soprabito scozzese con relativa mantellina e un cappello da cacciatore. E’ metodico e preciso nelle indagini, acuto osservatore, mirabile nelle deduzioni come e forse più del Dupin di Poe. Così come è disordinato nella vita comune. Se la sua mente non è in fermento si annoia, e per risvegliarla ricorre alla cocaina. Non la sniffa con il naso, ma se la inietta con una soluzione anche tre volte al giorno. Quando lo scoprii per la prima volta mi venne un colpo. Non potevo immaginare che un paladino della giustizia si comportasse come un depravato cocainomane. Ma in seguito ne ho viste di così cotte e di crude per cui questa deplorevole abitudine è diventato quasi un fiore all’occhiello. Le donne gli interessano poco, aborre il matrimonio. “Mai fidarsi completamente delle donne, neppure delle migliori” è il suo motto. E qui un sorrisetto me lo strappa.
Continuiamo con Poirot della grande Agatha. Questi è ancor più particolare. Intanto è belga e non inglese. Non è grande e grosso, né tanto meno alto. E’ un omettino piccolo, non arriva ad un metro e sessanta, piccolo ma dal portamento eretto e dignitoso, la testa a forma di uovo, un bel paio di baffi rigidi, vestito inappuntabile, passettini corti e veloci.
E’ stato interpretato più volte magnificamente da Peter Ustinov ma mi pare che David Suchet abbia centrato meglio l’obbiettivo della scrittrice. Parla un francese scolastico con brevi frasi intercalate nella sua lingua di origine, ha sempre freddo e non si separa mai dalle sue lucidissime scarpe di vernice nera e quasi mai (se non sbaglio) dai guanti che porta perfino nel deserto. Quello caldo, s’intende. Il suo motto è “Ordine e simmetria”. E’ vanesio che più vanesio non si può, presuntuoso e perfino arrogante. Un po’ come Holmes, ma la differenza è che l’arroganza e la presunzione di Poirot fa sorridere perché la Christie sparge sul personaggio una vera e propria cascata di ironia. E poi a questa sua altezzosa arroganza non corrisponde una benché minima carica di violenza naturale. Poirot non porta armi, non sa sparare, non si batte con nessuno. Non farebbe male ad una mosca. E nemmeno ad una zanzara. In Assassinio in Mesopotamia riesce a catturare questo piccolo, fastidiosissimo insetto con un bicchiere per poi rimetterlo in libertà fuori dalla porta della sua camera. Anche lui refrattario al gentil sesso. Una volta, stuzzicato dal capitano Hastings a proposito di una sua presunta simpatia verso una bella signora, risponde con garbo deciso “Io non mi innamoro. Io osservo”. Questa misoginia del famoso “testa d’uovo”non è passata inosservata neppure a Otto Penzler che nella prefazione a Donne pericolose, una raccolta di racconti di Autori vari piuttosto famosi come Ed Macbain che ha spiccato il volo verso il cielo, o Elmore Leonard che ha ancora i piedi ben piantati per terra, tanto per citarne un paio, pubblicato dalla Piemme Editore, dove i delitti da parte del gentil sesso avvengono con ogni mezzo, ricorda i famosi misogini Holmes e Wolfe (di cui parleremo in una prossima rubrica) in quanto, trovandosi di fronte a donne così pericolose di questi racconti, “Ne sarebbero stati scioccati e sconvolti”. Tuttavia, secondo il curatore, “…ne sarebbero rimasti anche affascinati e disperatamente curiosi di scoprire quali intenzioni avessero, dove sarebbero arrivate, quali adorabili piccoli trucchi nascondessero nella manica”.
Dunque un piccolo, grande personaggio che riesce quasi sempre a divertirmi. Così come ben riuscito è Miss Marple, un tipo di vecchietta che l’autrice aveva visto nella casa di una zia. Vive a St. Mary Mead, un villaggio della campagna inglese dove tutti si conoscono, si parlano, si salutano. Ha tante amiche con le quali passa il tempo a bere il tè, a sferruzzare, a mangiare pasticcini, a “pettegolare” degli altri. Dal suo giardino, vede, osserva, ascolta, cataloga le persone secondo il loro comportamento. E’ alta, snella, occhi azzurri, capelli bianchi, il viso arrossato segnato da molte rughe ed un dolce sorriso con il quale riesce a carpire molti segreti dell’animo umano. Mi ricordo una splendida interpretazione della Rutherford alla televisione che però non era snella, né aveva gli occhi azzurri ed i capelli bianchi. Ma ebbe lo stesso un successo strepitoso. Fascino del bianco e nero o fascino della passata gioventù? In seguito mi è piaciuta anche l’interpretazione della Geraldine McEwan più attinente al testo ma certo meno, come dire, prorompente e dinamica della Rutherford.
Le caratteristiche di un personaggio, la sua personalità la si può intuire anche dalla sua casa. Dimmi dove abiti e ti dirò chi sei. Tanto per seguire i due più famosi dirò che l’abitazione di Poirot, avendo per motto “Ordine e simmetria”, non può che essere pulita, squadrata e simmetrica, appunto. Tutto è quadrato, dalle stanze alla scultura che è nel salotto, dal quadro (giustappunto) moderno alle forme geometriche delle lampade e dei mobili. Non esiste nulla che possa avere parvenza di curva. Se fosse andato nella residenza di Holmes si sarebbe sentito male. Davanti alla libreria piena di libri messi a casaccio sarebbe cascato letteralmente per terra.
Un altro “mostro” di cui liberarci subito e in fretta è Maigret. Che mi fa venire in mente ancora una volta
la televisione. Avevo visto la bella interpretazione che il nostro Gino Cervi aveva fatto del commissario transalpino e così cominciai a fare incetta di gialli del suo autore George Simenon. Anche di Maigret c’è poco da dire tanto è conosciuto. Mi piace quella sua aria solida, quel suo fare da buon padre di famiglia, quella sua capacità di “annusare” l’atmosfera dei luoghi e delle persone inerenti al delitto. Quel suo modo di essere semplice che lo riconduce alla realtà di tutti i giorni. Un personaggio vero che è entrato nel cuore di tutti. Basta pensare ad una pipa e ad un bicchiere di birra. Comunque il nostro Simenon non avrebbe potuto creare il nostro Maigret se non lo avesse conosciuto di persona. Dico che nella realtà di quei tempi in cui Simenon scriveva le storie di Maigret c’era già nella polizia francese il commissario Marcel Guillameche per la sua bravura era stato soprannominato lo “Sherlock Holmes” francese. Simenon si mette sulle sue tracce, riesce a conoscerlo e fra i due nasce una lunga amicizia. Questo Guillame era alto, forte, dai lunghi baffi arricciati, con il caratteristico cappello a bombetta sempre sulla testa, testardo e profondamente onesto nei confronti degli indagati. E’ quello, tanto per capirci, che riesce a smascherare Henri Landru che ammazzava donne come fossero moscerini e poi le bruciava nel caminetto della sua villa risparmiando un bel po’ di legna. Insomma lo Sherlock Holmes francese insegna a Simenon molti trucchi del mestiere, soprattutto dal punto di vista psicologico, che poi lui riversa sul commissario Maigret. E poi c’è il ritmo. Ma sì, il ritmo, quel ritmo lento e sinuoso, quasi avvolgente che lo scrittore belga riesce a creare in molti dei suoi romanzi polizieschi. Una vera oasi di pace rispetto a quelli massacranti di certi giallastri moderni.
Termino questo primo incontro con un paio di personaggi singolari dei nostri giorni. Il primo si incontra ne L’albero dei giannizzeri di Jason Goodwin della Einaudi Stile Libero: è Yashim Togalu, eunuco. Sì, avete capito bene. Proprio un eunuco. E non c’è da scandalizzarsi che se ne trovano di tutti i colori. “Era un uomo alto e robusto sulla quarantina, con una gran massa di boccoli neri e qualche filo bianco; niente barba, ma baffi neri ricciuti. Aveva gli zigomi alti da turco e grigi occhi a mandorla di un popolo che viveva millenni sulla grande steppa eurasiatica”. Ha parecchie doti “fascino innato, disposizione per le lingue, e la capacità di sgranare quei suoi occhi grigi all’improvviso. Gli uomini e le donne rimanevano stranamente ipnotizzati dalla sua voce, prima ancora di capire chi stesse parlando. Però non aveva le palle”. Mi dispiace per le palle ma il tipo mi piace. Intanto è di poche parole e non il solito logorroico che ti fa girare la testa. Parla quando c’è da parlare, quando occorre. Altrimenti sta zitto o risponde a gesti. Sbatte le palpebre, sorride o si stringe nelle spalle. E’ sensibile e delicato, arrossisce. Sa rendersi invisibile nel senso che la sua presenza può passare del tutto inosservata. Sempre pulito ed ordinato, agile e silenzioso. Ottimo cuoco e buongustaio, gli piace il caffè nero, dolce e denso senza spezie. Fuma preparandosi la sigaretta da solo come gli aveva insegnato un mercante di cavalli albanese “arricciandone una estremità e infilando un pezzetto di carbone dall’altra”. Conduce una vita tranquilla, spesso in gellaba e pantofole. Il suo sogno è di avere un appartamento più grande con una bella biblioteca. I libri che ha sono bene allineati sugli scaffali, i tappeti anatolici sul pavimento. E’ tranquillo e pacato ma quando c’è bisogno prende le decisioni al volo, vedi per esempio nel momento in cui deve domare un incendio scoppiato vicino alla sua casa. E se c’è da correre a perdifiato per acciuffare un eventuale assassino lo fa senza pensarci due volte. Ha digerito la sua menomazione che lo aveva fatto soffrire per tanto tempo. Anche perché, pur senza i due contrappesi laterali, sa farsi valere lo stesso. E comunque “Era vivo. Bastava questo”. E vince il dolore con il distacco e l’ironia. Un bel personaggio senza tanti fronzoli i ghirigori.
Il secondo è il commissario di Siena Marco Tanzini che si trova in tre libri pubblicati dalla Prisma di Roma: Partita a scacchi con il morto - Chi ha ucciso il campione del mondo? e La diabolica setta di Caissa. Età pensionabile, single, media altezza, occhi celesti, calvo con gli occhiali. Ha un debole per le cravatte che porta anche sotto il caldo più torrido (l’imprinting è stato dato dalla madre) e per il budino di riso. Ha una discreta cultura e una altrettanto discreta biblioteca. Grande divoratore di libri ma non certo un intellettualoide con la puzza sotto il naso, fa dell’ironia il suo cavallo di battaglia. Calmo e testardo, deciso ad andare in fondo alle cose. E’ innamorato dei tesori artistici della città e quando può va a visitarli (un invito ai lettori a fare altrettanto. Non se ne pentiranno): le due Maestà di Duccio di Buoninsegna e di Simone Martini, gli affreschi del Palazzo Pubblico, un grandioso ritrovamento di un affresco nella cripta del Duomo, il pavimento restaurato dello stesso Duomo, la libreria Piccolomini, alcune mostre al palazzo Squarcialupi e così via. Gli piace osservare gli altri per tirarne fuori conclusioni socio-psicologiche. La sua spalla è il vice Manganelli, un altro single amante della pesca. Pittore a tempo perso ha dipinto un Duomo di Siena che agli occhi del commissario appare “inquietante”, colleziona motociclette e automobili in miniatura, va pazzo per i fumetti. Non ha la dialettica del commissario ma nemmeno è un barbagianni qualsiasi. I loro dialoghi sono piuttosto divertenti. Poi c’è la domestica, la signora Giulia, una vedova piuttosto in carne che lo tormenta con i suoi casi personali e il procuratore Silvestri il quale, per un motivo o l’altro, non riesce mai ad agire sulla scena del crimine, ma lo troviamo sempre attaccato al telefono. Vorrebbe che i casi fossero risolti alla svelta per il buon nome della città, vorrebbe essere presente alle indagini ma per una ragione o l’altra non può e questo acuisce la sua ansia. Unico neo. L’autore. Il sottoscritto.
(L'autore di questa rubrica è il curatore del sito www.libridiscacchi.135.it)
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