Del resto, sotto quali nomi e qualifiche si traveste Lupin, allorché si presenta in società e non impersona, per accentuare la burla, un poliziotto? Il cognome è sempre preceduto da un “de” nobiliare, a partire da Raoul d’Andrésy (che peraltro non è una completa falsificazione); le qualifiche coprono tutti i gradi di nobiltà, fino ad arrivare a principe o a grande di Spagna. E’ vero che disprezza e mette in ridicolo i poliziotti che ha di fronte, ma uno dei motivi è che si tratta di umili funzionari mal pagati. Non a caso riserva al povero Béchoux lo scherzo crudele di sottrargli le dodici azioni africane frutto di una vita trascorsa nella polizia; e, non contento, aggiunge al bottino la moglie dell’infelice. No, Lupin non è per nulla un giustiziere dagli ideali egualitari. Ignora il proletariato (a meno che non abbia begli occhi e lunghi capelli), disprezza la borghesia, ma il motivo non è la lotta di classe. E’ l’opposto: Lupin aspira all’aristocrazia. E ciò, si badi, nella Francia repubblicana dei primi decenni del ‘900, in una saga che si protrae fino alla vigilia della vittoria alle elezioni del Fronte Popolare.In questo senso il gentleman cambrioleur ha un precedente illustre: il già ricordato Rocambole. Finché questi rimane un malvivente (peraltro al servizio di un malfattore più feroce, l’implacabile Sir Williams), briga in tutte le maniere, lui che ha origini ancora più umili di quelle di Lupin, per entrare nei ranghi della nobiltà. Si faccia chiamare visconte de Cambolh o marchese de Chaméry, attua ogni sorta di intrigo per impalmare qualche giovane ereditiera capace di garantirgli una rendita, un titolo e uno stemma. Atto riprovevole più di ogni altro, agli occhi di una classe ostile per natura alla mobilità sociale. Rocambole sarà punito in maniera che eguaglia in atrocità i delitti da lui commessi: chiuso in un sacco per essere annegato, sfregiato col vetriolo. E ciò ogni volta che si illudeva di essersi lasciato alle spalle la miserabile taverna in cui aveva trascorso infanzia e adolescenza.Lupin, in qualche misura, vendica Rocambole: a lui la transizione dal proletariato all’aristocrazia, senza passare per la borghesia, riesce benissimo, grazie a superiori doti mimetiche. Così, in un certo senso, l’epopea del ladro gentiluomo chiude l’arco di vita del feuilleton. E proprio La contessa di Cagliostro segna quella chiusura, ricco com’è di riferimenti a Dumas: non solo la pseudo-Milady, ma anche Giuseppe Balsamo, fino alla rivelazione, davvero sorprendente, che il primo furto di Lupin aveva avuto per oggetto il famoso Collier de la Reine.Chiusi i conti con la tradizione letteraria da cui discende, Lupin, ora a tutti gli effetti gentiluomo e non più ladro, potrà dedicarsi a un passatempo degno di chi ha redditi assicurati e molto tempo a disposizione: risolvere enigmi - da quello tenebroso de L’île aux trente cercueils (uno dei romanzi di Leblanc più avvincenti e riusciti), a quelli ancor più complicati de La Demoiselle aux yeux verts (1927), de La Demeure mystérieuse, de La Barre-Y-Va (1931), de La Femme aux deux sourires (1933). Se la prima caccia al tesoro di Lupin, in occasione del suo primissimo incontro-scontro con Herlock Sholmès (Herlock Sholmès arrive trop tard, in Arsène Lupin, gentleman cambrioleur, 1907), era talmente semplice che riusciva facile al lettore risolvere da solo l’indovinello, nei romanzi scritti da Leblanc tra le due guerre i meccanismi dell’enigma si fanno complessi, prossimi alla perfezione; e Lupin li risolve con una metodologia induttiva più simile a quella di Sherlock Holmes che a quella, abbastanza rudimentale, di Herlock Sholmès. Ha affinato le sue doti al punto che, in Victor de la brigade mondaine (1933), per scoprire un segreto si limita a sedersi su una seggiola e a guardarsi attorno (un po’ come il Dupin di Poe in La lettera rubata). Non è romanzo poliziesco: cadaveri non ce ne sono. Non è nemmeno più feuilleton, anche se di quello rimane l’impianto generale e l’abbondanza di nobili, in una Francia che ormai ha altro a cui pensare. Si tratta sostanzialmente di abilissimi rompicapo, retti da una scrittura sempre vivace e brillante. Ma anche, se vogliamo, un po’ oziosi.
La contessa di Cagliostro non rappresenta dunque un inizio, ma piuttosto l’avvio di un tramonto. A sorpresa, verso la fine della sua carriera, Leblanc partorirà un La Cagliostro se venge (1935). Solo che Joséphine Balsamo non c’è più – l’autore, onestamente, lo fa capire fin dalla nota introduttiva - e i suoi eredi non ne sono all’altezza. Il feuilleton era già morto. Con questo romanzo viene sepolto.
Non viene sepolto Lupin, però. A parte qualche guizzo finale, fra cui una trasposizione teatrale piuttosto riuscita e una lunga serie di apocrifi (ottimi quelli firmati Boileau-Narcejac), sono prima cinema e poi televisione a garantire al ladro gentiluomo persistenza nella memoria. Qui, però, è necessaria una breve digressione.
Finora mi sono soffermato su ciò che collega Arsène Lupin al romanzo d’appendice. E’ bene sottolineare anche ciò che lo differenzia, a parte la confezione (quasi tutte le opere con Lupin al centro uscirono non su giornali e riviste, ma direttamente in volume, anche se spesso si trattava di volumetti popolari con il “marchio” Arsène Lupin ben visibile).
Anzitutto, Leblanc era un ottimo scrittore. Aveva esordito con racconti alla Maupassant, crudi e fulminanti, molto apprezzati dal mondo letterario. Allorché passa a un genere più commerciale, porta con sé l’eleganza e il brio dello stile, lontano da quello pesante e meccanico di un Ponson du Terrail, di un Paul Féval, di un Michel Zévaco e di altri artigiani del romanzo d’appendice.
Capace di un umorismo raffinato (dote che, a dire il vero, in La contessa di Cagliostro non è molto palesata), abile nel passare da scene da vaudeville ad altre tenere o romantiche, Leblanc riesce a fare di Lupin un personaggio quasi totalmente credibile, per quanto paradossali siano le sue imprese. Riuscita notevole, che necessita di una piena padronanza dei propri mezzi.
Allorché Lupin approda al cinema e alla televisione, la sua popolarità trova conferma, ma la sua identità si distacca da quella dell’originale. Dei due interpreti più noti – Robert Lamoureux in un paio di film piuttosto gustosi (Le avventure di Arsenio Lupin, 1957, e Il ritorno di Arsenio Lupin, 1950), e Georges Descrières in una serie televisiva tuttora di culto, iniziata nel 1971 – il primo è il più fedele al modello. Invece Descrières se ne allontana sensibilmente, dando vita a un personaggio un po’ fatuo, blasé, di aristocratica impassibilità, simile in tutto e per tutto a Raffles. Non un plebeo che si finge nobile, ma un uomo di mondo a tutti gli effetti.Il Lupin di Leblanc non è così. E’ nevrotico, facilmente irritabile, capace di trasporti romantici e di perfide cattiverie. Conquista donne in quantità, se ne innamora follemente e le perde tutte, in maniera tragica. Lungi dall’essere un rapinatore solitario, “sportivo”, è a capo di una banda che, se raramente appare in primo piano (l’unico caso è in Le bouchon de cristal, 1912), è tuttavia attiva e fedele al capo. Non a caso Lupin uscirà dall’avventura de La contessa di Cagliostro investito della consapevolezza di essere un capobanda nato.E poi non è per nulla fatuo. L’impulso alla commedia convive, in lui, con quello alla tragedia. Nel triste, cupissimo Les Trois crimes d’Arsène Lupin deciderà il suicidio, dopo essersi accorto di avere involontariamente ucciso o provocato la morte di tre innocenti. Sarà salvato solo da un soprassalto di vitalità. Nulla di simile nel damerino lestofante proposto da Geoges Descrières O da quel Lupin III, pronipote dell’originale, divulgato dai cartoni animati giapponesi, a conferma di una fama senza limiti di tempo o di spazio, quale si addice alle creazioni di genio.Se cartoni animati, cinema e televisione sono segni eloquenti di un successo che si perpetua, per conoscere il vero Lupin è indispensabile rileggere Leblanc, e abbandonarsi con voluttà al fascino delle sue storie, così come il futuro ladro gentiluomo si abbandonava, giovanissimo, agli abbracci sensuali della contessa di Cagliostro. Leblanc conclude, quando ormai è prossima la seconda guerra mondiale, un ciclo narrativo che aveva avuto avvio a metà dell’Ottocento. E’ lui stesso che lo uccide, sviscerandolo, mettendone allo scoperto gli espedienti e i meccanismi, esponendolo a una fruizione diversa da quella tradizionale e anticipatrice di qualcosa di ancora indefinito.Sono, se vogliamo, i Trois Crimes di Maurice Leblanc, ma la vittima è una sola: il feuilleton. Dopo di lui non risorgerà mai più, e comunque avrà nomi diversi.
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