Nell’evoluzione di un personaggio letterario seriale e di grande popolarità, viene spesso un momento in cui il suo autore decide di rievocarne la giovinezza e le prime imprese, o per esigenza propria, o perché premuto in quel senso dai lettori. A volte sparge rievocazioni e rivelazioni nel contesto di un romanzo del ciclo, altre volte le concentra in un’opera apposita.
Uno dei casi più noti è forse quello di Le memorie di Maigret di Simenon, che non ha nemmeno una vera e propria trama, ma si presenta come un amalgama di ricordi. Momenti analoghi sono rintracciabili nelle carriere cartacee di Sherlock Holmes, di Nero Wolfe, di Fantômas e di molti altri eroi o antieroi popolari.
La stessa cosa capitò a Maurice Leblanc e al suo Arsène Lupin. Allorché la sua creatura fu notissima, e a un passo dal divenire proverbiale, ritenne passaggio opportuno, e forse obbligato, tornare ai vent’anni del gentleman-cambrioleur e narrarne l’ascendenza familiare. Nacque così questo La contessa di Cagliostro (1924), che non è il primo volume con Lupin, bensì l’undicesimo (dodicesimo se si considerano 813 e Le trois crimes d’Arsène Lupin, scritti nel 1910, due romanzi distinti, e non, quali sono, un romanzo unico pubblicato in due tomi per via della mole).
Con La contessa di Cagliostro, Leblanc attua una seconda operazione propria della letteratura popolare. Mette di fronte a Lupin un nemico degno di lui. Lo era stato Moriarty per Sherlock Holmes, lo sarà il gangster Arnold Zeck per Nero Wolfe, per limitarmi ad alcuni dei personaggi citati. Invece, fino a quel momento, il fuorilegge più famoso al mondo aveva avuto a che fare con nemici piuttosto mediocri – salvo che in 813, romanzo anomalo rispetto al ciclo..
Si era trattato per lo più di funzionari di polizia prossimi all’imbecillità, come Béchoux, Ganimard e altri ancora Migliore di costoro, ma non di tanto, si era rivelato Herlock Sholmès, pallida imitazione dell’originale, messa in campo (in Arsène Lupin contre Herlock Sholmès, 1908, che più che un romanzo è la raccolta di due storie diverse) a lettere invertite per eludere una causa da parte degli eredi di Arthur Conan Doyle. L’unico avversario in certo senso temibile era stato il giornalista Beautrelet in L’Aigulle creuse (1909). Per acume, però, non per grandezza.
Invece Joséphine Balsamo, contessa di Cagliostro, è un nemico davvero sinistro e capace di tutto, anche perché milita senza remore dalla parte del male. La seduzione, da cui il giovane Lupin viene immediatamente irretito, è la sua arma più letale: bellissima, somigliante a Joséphine Beauharnais e addirittura alla Madonna della Sacra famiglia di Bernardino Luini, si ammanta di mistero e pare vivere da secoli. Se non fosse per quest’ultimo dettaglio, ricorderebbe in tutto e per tutto la Milady di Dumas, cioè il prototipo stesso della belle dame sans merci. Del resto le scene iniziali, in cui un tribunale di “galantuomini” la condanna a morte, richiamano fortemente la cupa conclusione de I tre moschettieri, in cui D’Artagnan e i suoi amici decretano la pena capitale per Milady e procedono all’esecuzione.
Sì, ma se la Cagliostro è il male, Lupin che cos’è? Ovviamente il bene, anche se agisce al di fuori della legalità. Non contro la legalità, si badi. La sua qualità di ladro gentiluomo, anzi, di gentleman cambrioleur (e Umberto Eco, ne Il superuomo di massa, ha spiegato bene come cambrioleur non equivalga a ladro, bensì a scassinatore, e sia pertanto termine in un certo senso meno “nobile”), resiste fino alla prima guerra mondiale. Poi, nei cinque anni che separano Les confidences d’Arsène Lupin (1913) da Le Triangle d’or (1918), riempiti solo da un fugace riferimento in L’Eclat d’obus (1916), qualcosa cambia drasticamente. Lupin riemerge dalla guerra in abiti da giustiziere, nonché da semplice risolutore di enigmi.
Ambedue le qualifiche potevano applicarsi anche a ciò che aveva fatto in precedenza, tuttavia allora la qualità di ladro predominava. In seguito, diventa un richiamo abbastanza casuale, privo di risvolti concreti che non siano una caccia persistente da parte della polizia. Il Lupin post-bellico non ruba più. Quando lo fa, come in La Démeure mystérieuse (1929), è un atto quasi obbligato, confinato alle ultime pagine e teso a risarcire chi aveva patito un’ingiustizia; mentre in L’Agence Barnett et Cie (1928) ogni furto serve a compensare un caso poliziesco risolto. A volte, addirittura, Lupin interviene nelle storie come deus ex machina, apparendo solo nei momenti decisivi, quando si ha bisogno di lui (per esempio in L'île aux trente cercueils, 1919). Il fatto che, in queste evenienze, si faccia chiamare principe Sernine, o Rénine, o don Luís Perenna, di antica nobiltà spagnola, accosta il suo ruolo a quello che aveva il principe Rodolphe de Gerolstein ne I misteri di Parigi.
Questa conversione al bene, dopo un esordio criminale, è un altro topos del romanzo popolare. Quasi cinquant’anni prima di Lupin, nel 1858, il celebre Rocambole di Ponson du Terrail aveva esordito come scanzonato malfattore pronto a ogni crimine, incluso il matricidio. Poi, dopo la giusta punizione intervenuta alla terza avventura – dove “terza” non si riferisce al volume, vista la vita caotica dei romanzi pubblicati a puntate, una volta divenuti libro – era risuscitato nelle vesti di agente del bene, intento a risolvere, per citare ancora Eco, “piccoli problemi di grandi famiglie”.
Anzi, era risorto due volte. Se nella prima resurrezione – Les Chevaliers du Clair-de-lune, Le Testament de Grain-de-sel (1861-63) – il suo ruolo era cambiato, ma i metodi erano rimasti gli stessi, alla seconda – La Résurrection de Rocambole (1866) – l’autore decise di renderlo ancora più buono. Con risultati di una noia infinita.
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